“Sono solo canzonette”, avrebbe detto normalmente Bennato. Nel caso (e caos) dei Kinks, forse il cantante napoletano avrebbe usato termini diversi. Con loro la canzonetta pop rock inglese prende una forma nuova, che li distingue dagli altri gruppi in voga – Beatles in primis. La musica dei Kinks non fu e non è soltanto pop: all’inizio risente dell’influenza del blues di Chicago e dei singhiozzi mozzi della chitarra di un diciassettenne; successivamente si plasma con la cadenza dura dell’hard rock e con l’intimità del folk e di un sound più ricercato. Ma soprattutto, i Kinks sono un’accozzaglia di sentimenti: aggressività e arroganza, ironia e sarcasmo. Il marchio di fabbrica? Il deadpan, la freddura tipica dell’umorismo inglese. The Village Green Preservation Society è un concentrato di tutto questo. E celebra il cinquantesimo anniversario con una mostra altrettanto “concentrata”, visitabile fino al 18 novembre. The Kinks Are The Village Green Preservation Society rappresenta il memento di un album simbolo della British Invasion, di cui la mostra esplora le sensibilità ed i successi. Il sunto fotografico in esposizione è opera di Barry Wentzell ed immortala la band nei suoi momenti storici, ad Hampstead Heath con Kenwood House sullo sfondo (FOTO 1), durante le sedute di registrazione, le performance per Top of the Pops e i live a Folkets Park (FOTO 2). Della collezione fanno parte anche dipinti originali di Dave Davies che il frontman realizzò ispirandosi al testo delle sue canzoni, parte dei lyrics stessi e un’opera di Morgan Howell, che ricrea l’iconico design del settimo singolo di successo dei Kinks, Wonderboy, in formato extra-large (l’immagine in apertura).
Solo Pete manca all’appello tra le firme originali presenti su ciascun cimelio (peraltro in vendita). L’album, uscito nel novembre 1968, è infatti il prodotto del quartetto Ray e Dave Davies, Pete Quaife e Mick Avory. Soggetti decisamente originali. Giusto per ricordare qualche episodio: il frontman Ray, è noto, tagliò con una lametta Gillette l’amplificatore della sua chitarra alla ricerca di un suono più aggressivo, che si distaccasse dal tradizionale stile pulito dell’epoca. Avory invece, in risposta ad un frustrato calcio di Dave alla sua batteria durante un concerto mal riuscito, gli sferrò un gancio così forte da rendere necessario l’intervento della polizia e il trasferimento del frontman al Cardiff Royal Infirmary. Difficile pensare che una band del genere abbia mai prodotto musica conformista. Forse anche per questo l’album agli inizi non ebbe il successo sperato. I Kinks, cresciuti nel sobborgo di Muswell Hill a nord di Londra, non si identificavano con i giovani del loro tempo, né con l’ambiente musicale che avrebbe dovuto rappresentarli. Nelle parole di Piero Scaruffi, illustre critico del rock: “Il loro sound era limpido e semplice (rispetto a quello sporco e contorto dei Rolling Stones), pacifico e orecchiabile (rispetto a quello violento e spigoloso degli Who), lontano dalle libidini e dalle frustrazioni giovanili, ma lontano anche dalla musica leggera. Ogni brano era condito da un arrangiamento o un ritmo insolito, ma soprattutto, aveva un ‘tema’.” Ad essere bersaglio e oggetto privilegiato della musica dei Kinks fu infatti il tessuto della società inglese – con i suoi costumi, difetti e stravaganze, che la band seppe magistralmente tratteggiare di album in album sulla scia della centenaria propensione all’autocritica tipicamente made in Britain. Ogni brano ha la sua macchietta, il suo luogo, la sua storia da raccontare. La discografia dei Kinks è un documentario sul passato raccontato con sagacia da un cronista ora ironico ora severo, Ray Davies, che seppe mescolare la semplicità e delicatezza della canzone popolare con l’arguzia dei suoi ritornelli e delle sue fantasie melodiche. Muovendosi tra tradizione e innovazione, i Kinks furono aria fresca nel panorama musicale inglese di fine anni Sessanta, simboli di un nuovo sound e una nuova poetica.
The Village Green Preservation Society ne è la più roboante manifestazione: il “villaggio inglese” rivive nelle melodie strappate alle ninnananne e alle filastrocche d’infanzia, nelle marce militari, nelle funzioni religiose, nelle feste campestri e goliardiche. Questo è ciò che si nasconde dietro Muswell Hill, il quartiere della giovinezza, o Hampstead Heath, il luogo preferito da Ray per foto e interviste. Nostalgia, splendore e decadenza si fondono nelle realtà microscopiche della band per farsi maschera di una realtà ben più grande, il rigoglio e poi declino dell’impero coloniale britannico. I Kinks, come la stessa canzone d’apertura dell’album recita, si schierano per la salvaguardia della birra alla spina e della verginità, di un’Inghilterra così pittoresca come non lo era mai stata. Il ricordo di una primordiale “età dell’oro”, un tuffo nel passato, non scade mai in vuoto rimpianto, in onerosa nostalgia, ma conserva la frizzante dimensione onirica che contraddistingue le sensibilità peculiari a Ray Davies. La sorpresa è dietro l’angolo: Wicked Annabella irrompe senza preavviso a frantumare l’apparente quiete dell’album, aggiungendosi agli strati di innovazione lirica che costituiscono le fondamenta del British guitar pop. La mostra ci ricorda che in fondo Davies compose più che canzoni. Si tratta, eventualmente, di piccoli quadretti di vita quotidiana britannica, di caricature leggere e colorate. Nella peggiore delle ipotesi, molto più che canzonette.
Le fotografie sono di Caterina Domeneghini