Tener-a-mente 2023 – Herbie Hancock: la notte di un genio fra idee e tastiere

Nello scorso giugno il Washington Post si chiedeva: Herbie Hancock è il più grande musicista jazz vivente? Ma la domanda era chiaramente pleonastica. Il sublime concerto visto all’Anfiteatro del Vittoriale per Tener-a-mente lo conferma. L’autore della colonna di sonora di Round Midnight è salito sul palco con un quartetto di fuoriclasse: James Genus (basso, già Saturday Night Live Band), Lionel Loueke (chitarra, originario del Benin, ha collaborato ad album di Terence Blanchard, Marcus Miller, Roy Hargrove, Charlie Haden), Jaylen Petinaud (batteria, 24enne talento purissimo di Brooklyn), Terence Blanchard (tromba, tastiere. Figlio di New Orleans, dotato di grande raffinatezza armonica, ha costruito un’importante carriera dividendosi fra progetti jazz post-bop e clamorose colonne sonore). Passano gli anni ma il nitore e la purezza con la quale le note escono dal piano di Herbie Hancock (1940) rimangono sconvolgenti, come scrive Chris Richards:«le note vanno e vengono come la luce del sole brilla sull’oceano».  Dopo l’Overture sull’Anfiteatro del Vittoriale ha iniziato a piovere e il concerto è stato interrotto per 45′. Un contrattempo che non ha minimamente influito sulla grandezza della performance. Hancock nei suoi scritti teorizza la gestione (in tutti i sensi) del momento. L’ha imparato da Miles Davis, lo racconta in Possibilities la sua autobiografia. Una notte, a Stoccolma, con il Miles Davis Quintet accade un fatto che lui definisce fondamentale e c’è da credergli visto che l’ha citato decine di volte. La band si sta avventurando in quella zona sacra che  è l’improvvisazione. Proprio mentre Davis sta per partire con il suo assolo, ad Hancock “scappa” un accordo troppo aspro. Mentre il pianista si dispera, Davis rimane imperturbabile e cambia la linea melodica del suo assolo dimostrando che l’errore è tale solo nella testa di chi pensa che esista. Per Hancock l’accettazione, l’intraprendenza e l’immaginazione sono le pietre angolari dell’edificio della sua poetica, elementi che lo aiutano a “togliersi di mezzo” e a lasciare solo la musica.

 

 

Questo spiega perché a 83 anni rimane curioso e trasparente,  desideroso di capire e di essere compreso. Il suo modo di suonare così profondo e  ampio  appare schietto e completo perché si basa su dei principi, inderogabili. La sua impareggiabile adattabilità gli ha permesso di attraversare 60 anni di jazz, seguendo le sue incredibili intuizione da un’era all’altra, dal post-bop alla fusion, passando per il funk, fino all’hip-hop. Partendo da una certezza: «improvvisare è come aprire una scatola meravigliosa dove tutto ciò che estrai è sempre nuovo. Non ti annoierai mai, perché quello che contiene è diverso ogni volta».  Sul palco di Tener- a-mente Hancock ha oscillato fra gioia elettrica, dolore, ottimismo sincero, solitudine tecno-spirituale, ritmi profondamente funky e molto altro.  E che emozione vederlo imporre i suoni vitrei della keytar, gonfiare le melodie con il sintetizzatore, ritornare al magistero imperiale del piano. Le pietre miliari non sono mancate (Chameleon, Actual Proof), ma questo non è stato un concerto di successi di un eroe del jazz, era qualcosa di molto più denso, eccittante, elastico, propulsivo. Due brani hanno rappresentato il cuore del concerto. Footprints  composto dal più caro amico e collaboratore di Hancock, il sassofonista Wayne Shorter, morto a marzo. Petinaud ha interpretato letteralmente il titolo lasciando impronte indelebili del suo rullato, Blanchard ci ha messo la tenerezza e Hancock una mano destra scintillante  che scavava alla ricerca dell’amico, cercando fra l’adesso e il sempre.  L’altro momento sbalorditivo del set è arrivato con Come Running to Me, un diamante estratto dall’album del 1978 (carico di vocoder) Sunlight. Con la band in silenzio, Hancock ha cantato in un microfono speciale, una frase costante e simile a un mantra: «non sono felice senza di te», incanalando la sua voce attraverso gli accordi del sintetizzatore che prendevano forma sotto le sue dita. Ripetere le parole mentre si cambiavano le note comunicava una tristezza inequivocabile: ci sono molti modi per sentirsi soli. Ma c’era un tipo di dolore completamente diverso da percepire nel suono stesso, una specie di malessere  che arrivava quando l’ascolto della tecnologia evocava un futuro che fa paura, che inquieta.