Zio Vanja di Kriszta Székely: resistere per sopravvivere fra spazi chiusi e desideri diversi

La tragedia dell’inerzia, delle occasioni mancate, delle aspirazioni deluse, dell’incapacità di agire e di essere felici che più di tutte esprime il senso di fallimento proprio del teatro cechoviano è quanto mai attuale nella inusuale e convincente lettura della regista ungherese Kriszta Székely (classe 1982) alla sua prima produzione italiana affidatale dal Teatro Stabile di Torino. Nel suo Zio Vanja tutti i personaggi risultano rivitalizzati e fisicamente molto attivi: si muovono e si dibattono come insetti all’interno di un’enorme teca di vetro e lo spettatore, come un entomologo, osserva il loro comportamento. Un adattamento, firmato dalla Székely con Ármin Szabó-Székely (traduzione di Tamara Török, curata da Emanuele Aldrovandi), in cui si ride di gusto – e questo sarebbe piaciuto a Čechov -, anche grazie a un cast di attori particolarmente azzeccati. Serebrjakov (Ivano Marescotti) non è più un professore di arte in pensione, ma un regista che ha realizzato cortometraggi sperimentali («inguardabili» a detta di Vanja) dai titoli improponibili come La farfalla morta vola via, «un puttaniere» (sempre a detta di Vanja) che ha esercitato e continua a esercitare un’attrazione inspiegabile sulle donne di tutte le età (a partire da Jelena, la moglie ventisettenne, che si è accorta troppo tardi di essersi innamorata di un feticcio, «non era autentico amore»,  per arrivare alla madre della sua prima moglie che ha sempre stravisto per lui). Molto ipocondriaco, continua a soffrire di emicrania e reumatismi, ma non di «podagra» e «fegato gonfio per la gelosia e per l’invidia» sostituiti ai giorni nostri da reflusso gastrico e da un non meglio precisato disturbo cardiaco. Per passare il tempo e darsi un tono legge La filosofia dell’arte di Hegel. Rappresenta l’Artista con la A maiuscola, che ha sacrificato la sua vita in nome dell’arte, mettendo tutti i suoi risparmi nei suoi film perché «creare» è l’unica cosa che conta (non a caso nel finale si congeda con uno slogan vuoto, come è lui: «Bisogna creare»). Di fatto è un cialtrone, nessuno ha visto i suoi film. Al suo fianco Jelena (Lucrezia Guidone), la moglie ventisettenne, è una «strega» o «una sirena» a seconda di chi la guarda, consapevole della sua bellezza, una «piccola predatrice» sotto cui si nasconde «la belva feroce», ma è un’indolente, «troppo pigra per vivere» e incapace di lasciare il vecchio marito, che non ama, per essere felice. Dice a Sonja che «bisogna aver fiducia negli altri per vivere», ma è lei la prima a non riporre alcuna fiducia in nessuno.

 

 

Il medico Astrov (Ivan Alovisio), già ecologista ante litteram nella pièce di Čechov (non mangia carne, si dedica con amore al suo bosco) qui diventa un esperto di riscaldamento globale, fa una lunga tirata, snocciolando dati, sull’industria della carne, la maggiore responsabile di emissioni di CO2, sulla situazione degli oceani e l’innnalzamento del livello del mare e sui ghiacciai alpini che «nel 2100 perderanno l’80% della loro massa». Il bacio con Elena che si è innamorata di lui visto che «ha una visione, crea, agisce, è una persona rara» qui si amplifica, tre saranno i baci tra i due e la scena di seduzione si fa più esplicita, interrotta solo dall’arrivo di Vanja che vede tutto («Ho visto tutto… tutto quanto»). Maria Vassiljevna (Ariella Reggio), la madre di Vanja e della defunta Vera, vive nel suo mondo, mal sopporta la nuova moglie del genero, legge Senses of the Subject della filosofa post-strutturalista Judith Butler, si interessa solo di questioni legate al femminismo e si illumina per qualsiasi cosa Serebrjakov dica, lasciandosi anche andare a sprazzi di umorismo (alla notizia dell’uomo: «Vi ho convocati perché sta per arrivare l’ispettore generale», Maman serafica interviene con un mot d’esprit: «Gogol!»). Sonja (Beatrice Vecchione), la figlia di primo letto di Serebrjakov, da sei anni innamorata non corrisposta di Astrov, è personaggio fondamentale per il precario equilibrio della situazione, a lei spetta il compito di chiudere lo spettacolo su note per nulla consolatorie: «Viviamo… fin quando non arriverà la morte… Guarderemo indietro il nostro passato sorridendo. Riposeremo dopo. Vedremo che tutta la nostra vita terrena sprofonda nell’immensa luce che copre l’universo intero. Aspetta zio, riposeremo… riposeremo… riposeremo». A lei è dedicata la struggente canzone che chiude lo spettacolo, L’immensità cantata da Milva.

 

 

E poi c’è Vanja (uno straordinario Paolo Pierobon), l’uomo che ha perso tutte le occasioni, Čechov gli fa dire: «Quando manca l’autentica vita, si vive di miraggi. Sempre meglio che niente». È un uomo che non ha più nulla da perdere, la morte è per lui un pensiero costante, dalle prime battute («Con questo tempo verrebbe voglia di impiccarsi») fino alla morfina che sottrae al medico. Per 25 anni ha vissuto nel culto del cognato («Per me era un genio»), ma improvvisamente ha aperto gli occhi e l’amarezza è tanta: «Io non ho vissuto… se solo avessi avuto una vita normale…». È molto lucido, consapevole di essere arrivato tardi in tutto, anche nell’amore che ora prova per Jelena conosciuta dieci anni prima: «Perché allora non mi sono innamorato di lei e non ho chiesto la sua mano? Eppure era cosí possibile! Adesso sarebbe mia moglie…». Roso dai rimorsi, non si arrende, è combattivo, sanguigno, anche se dovrà accettare che nessun cambiamento è possibile. Infine ci sono Teleghin (Franco Ravera), possidente impoverito che la famiglia ospita, scherzosamente ribattezzato “Yeti”, responsabile della colonna sonora diegetica dello spettacolo, non più armato di chitarra, gira con una radiolina a transistor, e Marina (Federica Fabiani), la vecchia balia che con sarcasmo osserva e commenta.

 

 

Se l’arrivo dei Serebriakov rappresenta l’elemento perturbante che sconvolge le abitudini e le esistenze di tutti («Ci avete infettato, avete portato soltanto la distruzione tu e tuo marito», dirà Vanja a Jelena), alla loro partenza la vita riprende il suo corso. «Sono andati via» ripetono come in trance Astrov, Marina, Sonia e Maman. L’ordine è ristabilito perché l’esistenza è immutabile. Qui sta la vera tragedia ed emerge con forza nella versione di Kriszta Székely che chiude i suoi personaggi in una sorta di serra soffocante (i riferimenti al caldo opprimente sono costanti). E se all’inizio qualche porta rimane aperta alla fine, dopo la partenza dei Serebrjakov, viene chiusa da Vanja. Tutto è sigillato, non c’è via d’uscita, né di scampo. Non a caso, nella bella conversazione con Emanuele Trevi contenuta nel programma di sala la Székely rivela: «Cerco un modo di rappresentare la resistenza degli individui in uno spazio chiuso, affollato di altri individui con desideri diversi oppure opposti». Resistere per sopravvivere, questa la grande lezione di Čechov.

 

 

Foto di Andrea Macchia

 

Torino         Teatro Carignano                7-26 gennaio

Budapest    Katona József Színház     29-30 gennaio