20 anni senza Chicco Ravaglia: When they built you, brother, they broke the mold

“Chicco 6 uno di noi”. È lo striscione che i tifosi di Cantù espongono ancora oggi, a ogni partita, in memoria di Chicco Ravaglia e del suo numero di maglia. La “6” che è stata ritirata (l’8 gennaio del 2000 in un derby contro la sua ex squadra, Varese). Dopo la sua scomparsa nella notte più buia tra il 22 e il 23 dicembre del 1999. Dopo la sua partita più bella, la vittoria contro Reggio Emilia, dopo 23 punti segnati e una grinta pazzesca e contagiosa, da far ballare, gridare ed esultare tutto il Pianella. Enrico purtroppo non c’è più, da vent’anni, eppure è ancora vivo. Nel cuore di molti. Di chiunque l’abbia conosciuto almeno un po’, di chiunque abbia giocato insieme o contro di lui. E soprattutto – come per gli ultras della pallacanestro Cantù, ma anche di Varese, Bologna, Cento, Imola – di chiunque l’abbia semplicemente visto giocare. Brilla ancora la sua stella nell’Olimpo della pallacanestro italiana, e una stella – quasi in stile Hollywood – gli è stata dedicata proprio dalla Pallacanestro Cantù, nella Piazza degli Atleti, tra le leggende del basket canturino. Un senso per il gioco, la squadra e il canestro come pochi in Italia. Bombe, assist, entrate a canestro in mezzo a gente grossa il doppio di lui. Ricordo che già da bambino, a minibasket, alla Spes Imola dove giocavamo insieme, faceva giocate da strabuzzare gli occhi. Cose che vedevamo fare ai grandi. La schiaffava nel cesto ad altezza di bambino come nessun’altro di noi, che ancora faticavamo a colpire il ferro o la tabella, figurarsi il cesto. Un predestinato, oltre che un figlio d’arte (il padre Bob ha segnato più di 10.000 punti in carriera).

 

 

Da ragazzino lasciò il basket imolese per giocare nelle giovanili della Virtus Bologna (scelto, a soli dodici anni, da un certo Ettore Messina). Ricordo che all’epoca andava in giro per Imola, dove frequentava ancora la scuola, con una bislacca bici da cross con manubrione che pareva una Harley Davidson. Dinoccolatissimo e divertente fuori dal campo, pieno di eleganza e super concentrato appena scattava a canestro o schiacciava la palla a terra a favore di un compagno. In una partita in A1 con la Cagiva Varese proprio contro la Virtus Bologna, senza alcun timore reverenziale verso i “grandi”, difendeva già come un ossesso, pressione, raddoppi, palle rubate. Si fece un coast to coast, zigzagando da solo fra gli avversari, palla dietro la schiena ed entrata a canestro. Cesto. Stava zigzagando in mezzo ad atleti del calibro e dei muscoli di Flavio Carera e “Picchio” Abbio. Quella giocata, con il pallone nascosto per una frazione di secondo dietro la schiena, la faceva già a 12 anni, proprio militando nella Virtus Bologna, ma in mezzo a ragazzini ancora gracili e inesperti. Nell’anno di Varese dimostrò a tutti una rapidità, una testa e una classe da poter sostituire un idolo locale come Gianmarco Pozzecco (infortunato), di cui divenne comunque grande amico. Iniziò così il proprio personale percorso da titolare nella massima serie. Prima ancora, a Cento, aveva giocato un’annata memorabile in B1, con tabellini da top scorer ed MVP. I telecronisti delle tv locali, in epoca “pre digitale”, faticavano a star dietro al suo tabellino, tanti canestri segnava: «Abbiamo perso il punteggio…». Contro Porto San Giorgio ne fece 33, con una valanga di bombe da qualsiasi posizione dell’arco.

 

 

Tornato alla Virtus Bologna, dopo Varese, ebbe un ruolo decisivo nella vittoria della Coppa Italia nel 1997 (oggi il premio MVP della competizione è dedicato proprio a lui). Poi gli infortuni lo tennero un paio d’anni fuori dal campo. Seppe stringere i denti, rialzarsi e risorgere a Cantù. C’è un vecchio video di una recita del liceo linguistico di Imola in cui Chicco canta una magnifica quanto improbabile versione di Romagna mia in francese. E finisce poi per guidare un triciclo troppo piccolo per lui. Fuori dal campo aveva un incredibile senso per il riso e la commedia. Appena entrato sul parquet aveva invece una serietà da veterano. Nel video a un certo punto l’operatore si avvicina a lui e lui punge la telecamera con il dito, rompendo le regole del film. Nell’album Magic, c’è una canzone che Bruce Springsteen ha dedicato all’amico e collaboratore Terry Magovern scomparso nel 2007. Canta: «When they built you, brother, they broke the mold» (Quando ti hanno creato, fratello, hanno rotto lo stampo). Parole che viene spontaneo oggi dedicare a Chicco, la cui assenza è una voragine per tutti gli appassionati di basket e gli amici. Inevitabile pensare cosa sarebbe potuto diventare, cosa avrebbe potuto fare sul parquet che amava come la vita stessa, un playmaker italiano di 1 metro e 93, con un senso della posizione, del campo, del canestro come pochi…
Un giorno lo storyteller Federico Buffa, chiacchierando di basket a Ischia, mi ha detto: «Veri campioni con la classe di Chicco Ravaglia non muoiono mai…».Credo sia al contempo molto vero e molto triste. Perché Chicco non c’è più, eppure, davvero, il suo ricordo e la sua classe non li dimenticheremo mai. Brillano ancora nella memoria della pallacanestro.

 

When they built you, brother, they broke the mold.