Antonio Viganò: Il ballo e il teatro delle diversità

Antonio Viganò è il direttore artistico di Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, con sede a Bolzano, che oltre a essere l’unica compagnia di teatrodanza in Italia costituita da artisti con e senza disabilità ha fatto della contaminazione dei generi la sua cifra stilistica: danza, scrittura drammaturgia contemporanea, tematiche sociali si fondono in spettacoli che hanno ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione de Il ballo a TeatroLaCucina di Milano a fine novembre.

 

 

Puoi spiegarci questa tua frase: «Siamo un “teatro delle diversità” e non il teatro dei diversi»?

La compagnia esiste da ormai da quattro anni. La sua unicità in Italia è che gli attori, disabili o non, sono tutti professionali, lavorano professionalmente nel teatro, non occasionalmente per gli spettacoli. Si tratta di 11 attori “svantaggiati” (così si dice da noi, con una formula giuridica) e 5 attori, invece, diciamo “normali”. Ci differenzia il fatto che tutti sono professionisti, con contratti a tempo indeterminato e lavorano tutti i giorni per cui ricostruiamo identità anche attraverso la professionalizzazione e l’idea che possano lavorare dentro il teatro.

 

Una bella sfida…

Ovviamente si fa fatica, è difficile, però cerchiamo di tenere il passo, di essere come soggetto il meno sociale e il più culturale possibile per cui siamo anche finanziati dal mondo culturale e non dal sociale, e questo di solito è strano, ma ci piace. È una battaglia che abbiamo voluto fare, perché è meglio essere riconosciuti non come un lavoro socialmente utile, ma come una compagnia teatrale che si misura con l’arte senza nessuna forma di protezione, semmai con uno sguardo particolare. Per questo dico che non siamo il teatro dei diversi, ma apparteniamo forse a quella storia che è più lunga di noi, più importante di noi che è quella del teatro della diversità, vale a dire il teatro che va nei luoghi, nei confini un po’ inesplorati a cercare ragione del suo essere, per riscattare se stessi più che qualcun altro. Non abbiamo intenti terapeutici perché non ne siano capaci, forse facciamo terapia per il pubblico, è una cosa che mi piacerebbe. La soddisfazione è vedere che le grandi scommesse si vincono, questi attori “svantaggiati” possono stare in un palcoscenico con una consapevolezza e una coscienza assoluta, straordinaria, sono portatori anche di una magia, c’è un mistero che li avvolge.

 

Com’è lavorare con loro?

Raramente nella normalità – perché non lavoro solo con la disabilità – ho trovato attori che sono dentro così sempre in quello che fanno, si danno tutti interi. Si crea una bella alchimia, sono attori molto generosi da questo punto di vista.

 

 

Parliamo de Il ballo in cui personaggi sono obbligati a compiere sempre gli stessi gesti (a un certo punto si dice: «Non potete essere leggeri, volubili. La vostra vita è un’infinita ripetizione»).

Volevamo lavorare sull’idea di porta chiusa di Sartre, dell’inferno. Che cos’è l’inferno? Sartre mette in una stanza tre persone molto diverse costrette a stare lì, noi mettiamo invece un gruppo e lo costringiamo a ripetere continuamente delle azioni, senza possibilità di uscita davanti a uno sguardo – sia interno, sia esterno ovvero gli spettatori – e al giudizio degli altri. Volevamo che l’idea che l’inferno sono gli altri, sono quelli che ti definiscono, su questi corpi di attori sociali fosse l’elemento più evidente.

 

È uno spettacolo con evidenti suggestioni cinematografiche. Per esempio citi esplicitamente Tango, il corto di Zbigniew Rybczyński che nel 1983 vinse l’Oscar.

L’idea della ripetizione parte proprio da lì, c’è un riferimento forte. Ci piaceva perché penso che in Tango, Rybczyński restituisca l’intensità di una vita, lo scorrere di un’esistenza, noi invece utilizziamo la ripetizione per dare il senso di una prigione….

 

Molto potente anche il finale in cui gli attori prendono gli applausi ritraendosi.

Anche quell’applauso è un giudizio a cui loro sono sottoposti. Siamo consapevoli di stroncare un po’ il pubblico, ci dispiace…

 

In che senso Il ballo è il vostro spettacolo manifesto?

Lo consideriamo il nostro manifesto poetico un po’ per il tema che tratta – e noi ci siamo dentro completamente tutti i giorni – e anche perché c’è dentro tutta la compagnia.

 

 

Ci dici qualcosa anche degli altri spettacoli?

Ormai abbiamo un bel repertorio che ci rappresenta. Per esempio dall’incontro con la compagnia francese L’oiseau mouche, con cui ho lavorato agli inizi del 2000, è nato lo spettacolo Personaggi, tratto dai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Anche in questo caso i riflessi, i rimandi sono diversi, perché quando sento i miei che dicono: «Vogliamo dimostrarvi che si nasce alla vita in tanti modi e in tante forme», logicamente sono parole che riverberano altre cose oltre al testo di Pirandello. Mi piaceva questo testo perché in Pirandello sono personaggi immaginari invece qui sono reali, entrano e dicono: «Facciamo che la nostra storia si possa compiere in teatro». Poi abbiamo uno spettacolo sul teatro ragazzi, H+G che è Hansel e Gretel con Alessandro Serra. Con la nostra coreografa, Julie Anne Stanzak, danzatrice di Pina Bausch abbiamo realizzato lo spettacolo Nessuno sa di noi, in cui Julie danza insieme a Mattia Peretto, un ragazzo down. Con questo spettacolo il prossimo marzo saremo alla Lavanderia a vapore di Collegno.

 

Foto di Luca Del Pia

www.teatrolaribalta.it