Arturo Cirillo e il lavoro di sottrazione in Chi ha paura di Virginia Woolf?

Dopo Tennessee Williams (La gatta sul tetto che scotta, Lo zoo di vetro) Arturo Cirillo si confronta con un altro drammaturgo americano: Edward Albee e il suo testo più celebre, Chi ha paura di Virginia Woolf?. La pièce del 1962, venne portata al cinema quattro anni dopo dall’esordiente Mike Nichols, diventando celebre nel mondo intero anche grazie al legame nella vita reale di Elizabeth Taylor e Richard Burton. Lo spettacolo di Cirillo (che dirige e interpreta il ruolo di George, mentre ritroviamo Milvia Marigliano nel ruolo di Martha e Edoardo Ribatto in quelli di Nick oltre alla new entry Valentina Picello che interpreta Honey) è molto distante dal film: il testo è stato asciugato e l’atmosfera è meno dominata dall’alcool. Ne risulta un gioco al massacro molto più consapevole e disturbante, in cui vittime e carnefici si alternano senza esclusione di colpi.

 

Ultimamente sembri avere un’attrazione per la drammaturgia americana, mentre in passato eri più proiettato verso autori francofoni…

Non si tratta di una vera scelta, è stato casuale. Non sono mai stato molto interessato alla drammaturgia americana perché non solo non sono interessato a quel mondo, ma non ho nemmeno nessuna particolare fascinazione per esempio per la letteratura americana. In più ho sempre pensato a quella drammaturgia come fortemente Actors Studio, con una ricerca meticolosa per ottenere una recitazione ipernaturalistica che poco Chi ha paura di Virginia Woolf-Milvia Marigliano @ph Diego Steccanellami interessa e c’entra con me. Effettivamente ho sempre frequentato più gli autori francesi (ho fatto Molière, Copi, Ionesco, come attore un Koltès, autore che mi piacerebbe rifare). C’entra anche il fatto che non parlo inglese, mentre parlo il francese e mi piace lavorare sul testo originale. L’idea comunque è nata con il teatro Menotti e con Milvia Marigliano. Da tempo Milvia mi inviava a Napoli dei testi di drammaturgia italiana contemporanea, che non mi convincevano mai e due anni fa se ne uscì fuori con Lo zoo di vetro. Me lo ha fatto rileggere e mi ha proprio commosso.

 

Che cosa ti ha convinto?

Intanto mi ha molto coinvolto il tema della famiglia; poi ho cominciato a pensare che non dovevo leggere le didascalie. Restando soltanto sul nucleo centrale del dialogo mi è sembrata una storia estremamente condivisibile e comprensibile. Questo testo in particolare di Williams parla di persone semplici e io sono molto attratto, non solo teatralmente, dalle persone semplici. Forse perché riconosco di essere molto stratificato e complesso… Mi piaceva l’idea di andarmi a confrontare con persone che hanno problemi anche molto tangibili (i soldi per la bolletta della luce). Così come mi piaceva il rapporto madre e figli (qui si parla di ragazzi disturbati, isolati, timidi, chiusi in loro stessi), quindi mi sono avvicinato scordandomi l’America. Diciamo che affronto la drammaturgia americana nella maniera più disinteressata all’America e quindi, forse, più infedele. Ho, però, l’impressione che sia una drammaturgia che ha bisogno di essere affrontata da un altro punto di vista, proprio perché ha un canone troppo riconoscibile. Il fatto che c’è Hollywood e che tutta la drammaturgia sia stata così fortemente canonizzata e anche un po’ colonizzata dai grandi Studios rende necessario staccarsi dai canoni estetici, visivi, immaginativi.

 

Qui, come già nello Zoo di vetro, elimini anche ogni connotazione temporale e geografica.

Qui erano meno presenti, ma nello Zoo ce n’erano proprio tante. Anche perché Williams è un autore di un luogo geografico che è il Tennessee (non per nulla ha scelto come nome d’arte proprio questo). Albee è diverso. Ha anche lui dei problemi familiari – è stato adottato e tutto il testo è, secondo me, un grosso attraversamento della questione della genitorialità, oltre che dei rapporti di odio-amore tra i personaggi – ma è meno americano. Qui c’è il mondo universitario, che abbiamo cercato di rendere un po’ più di ampio respiro rispetto all’originale. Ma soprattutto nel testo di Albee si sente tanto il rapporto con il cinema: è un enorme fiume di parole che ho tagliato perché lo trovavo assolutamente eccessivo.

 

Hai visto il film di Mike Nichols quando stavi preparando lo spettacolo?

Non tutto, ma volevo comunque andare in una direzione diversa. Nel film mi sembra che l’alcolismo giustifichi tutto, mentre a me interessava indagare la loro stranezza. Tutti fanno cose un po’ schizofreniche, sconnesse e hanno andamenti ondivaghi, ma non perché sono ubriachi. Nel mio spettacolo l’alcool regna poco. Non mi sono preoccupato del realismo (si vede che bevono acqua) perché vedere quattro attori bravi che fanno gli ubriachi mi sembrava una scommessa poco interessante, anche vecchia, di un certo tipo di teatro da mattatori, un po’ superato. Forse anche per questo è un testo che viene messo poco in scena perché lo si vive molto come una prova attorale, un po’ istrionica, di questi che devono piangere, ridere, essere violenti, affettuosi… E poi parlano tantissimo, sono sempre in scena. Mi sembrava più interessante portarlo sull’inquietudine psicanalitica, che poi è stata una fortuna parallela di questo testo. Ho letto devotamente un libro che si intitola La pragmatica della comunicazione umana di insigni psicologi che ha tutto un capitolo su Chi ha paura di Virginia Woolf?.

 

Dal punto di vista della regia hai optato per lasciare i personaggi sempre in scena. Al limite crollano improvvisamente ai lati della scena quasi come burattini a cui improvvisamente si spezzano i fili. Un po’ come se ognuno fosse chiamato a recitare una parte.

Ho sempre un grosso problema quando un personaggio esce di scena perché mi chiedo dove vada. Qui utilizzo il palcoscenico meno come metateatralità, ma più come sChi ha paura di Virginia Woolf-E.Ribatto-V.Picello@Diego Steccanellae fosse una specie di confine dell’inconscio. Quando i personaggi non stanno lì a fare queste guerre di difesa e di attacco, crollano quasi a rappresentare una propria sconnessione interiore. In questo spettacolo, come anche in Zoo, proprio perché c’è una matrice così fortemente realistica, naturalistica, mi interessava narrare anche dell’altro, quello che sta un po’ prima o dopo o durante le parole. Va in tal senso anche la scelta di raccontare l’alcolismo in modo meno convenzionale, imitativo diciamo, con meno verosimiglianza, ma seguendo un discorso più emotivo. Da qui i crolli e l’ultima scena in cui è come se un po’ tutto si ubriacasse, anche lo spazio.

 

Parliamo del lavoro con gli attori. A te piace lavorare con un gruppo consolidato, qui ritroviamo quasi tutti gli interpreti di Zoo

In effetti sono abituato a lavorare in maniera costante sia con gli attori sia con i collaboratori. Lavorare con attori che hanno già condiviso un’esperienza fa sì che ci si conosca meglio. In più con me c’è anche la fortuna, o la sfortuna, che essendo anch’io in scena passo con gli attori tantissimo tempo, non solo quello delle prove, ma quello della vita reale di tutto lo spettacolo. C’è quindi un’abitudine a stare insieme in scena che è importante. Soprattutto quando, ed è questo il caso, c’è un rapporto difficile con il testo…

 

Non ti convinceva?

A volte sono arrivato a detestarlo. Per me è sempre molto faticoso lavorare con testi che non hanno una forma, sono abituato a un certo tipo di drammaturgia, se vogliamo molto controllata (penso a Molière). Quando mi trovo di fronte a una drammaturgia in cui sento che c’è così poca attenzione alla misura e al tempo delle scene faccio fatica. Un altro autore con cui ho avuto dei problemi è stato Copi. Ma in Albee lo sento tantissimo, lui è veramente un vomito di parole, della forma non gli interessa nulla. Infatti, il rischio grossissimo di questo testo è che possa diventare infinito. Messo in scena nella versione integrale dura tre ore e, secondo me, è insensato anche perché è un gioco di ripetizioni inutile. Devo dire che in Albee non riconosco una grossa qualità di scrittura, è più istinto, si tratta di una persona – anche più di Williams – abitata dalle proprie ossessioni e che quindi, in qualche modo, deve cacciarle fuori e oggettivarle su una pagina.

 

C’è sempre una scelta accurata delle musiche nei tuoi spettacoli. Qui si spazia da Tina Turner ai Dik Dik fino allo struggente brano finale di Wim Mertens.

In Zoo iniziando le prove ero già abbastanza cChi ha paura di Virginia Woolf-E.Ribatto-A.Cirillo @ph Diego Steccanelleonvinto dell’idea di usare Luigi Tenco. In genere, non decido quasi mai nulla prima di iniziare le prove perché è come se tante cose le capissi soltanto facendole. Qui, in realtà, ho trovate le musiche molto tardi. Un punto di partenza è stato Birdman di Iñárritu e infatti la batteria che arriva per ben tre volte è quella di Antonio Sanchez, che di suo fa jazz, ma qui ha fatto questa musica più cattiva e se vogliamo più essenziale. Questa specie di narrazione della batteria come unico strumento mi piaceva molto. Tra l’altro ci sono stati recensori che hanno citato Chi ha paura di Virginia Woolf? In relazione al tipo di spettacolo che Riggan vuole mettere in scena (che poi in realtà lì è Carver). Invece Mertens non lo conoscevo, ma ci sono arrivando rileggendo Camere separate di Pier Vittorio Tondelli che lo cita. Quando ho sentito questo pezzo con il canto che arriva molto tardi, senza una struttura da canzone, l’ho subito amato e piano piano mi sono messo nell’idea che non volevo fare buio.

 

In effetti lo spettacolo rompe molti schemi teatrali consolidati…

Rompe certe convenzioni: arriviamo dalla sala, io a un certo punto scendo in sala, non facciamo mai un buio, ed è come se non finisse perché noi passiamo agli applausi senza uscire di scena. Anche usare il brano molto lungo sul finale mi piaceva per sfidare certe regole della correttezza. E questo l’ho applicato anche alla recitazione. Volevo attuare una recitazione più bassa, sporca, vera, perché sento che c’è il rischio di andare su una recitazione molto compiaciuta proprio perché si è strani, si dicono cose un po’ paradossali. Ho cercato di lavorare per sottrazione. A me è sempre molto chiaro cosa non voglio prima ancora di che cosa voglio. Quando abbiamo iniziato a provare, quello che vedevo e sentivo mi faceva orrore perché era proprio il salotto e non me ne fregava nulla. Poi abbiamo iniziato a scavare…

 

Il prossimo spettacolo cosa sarà?

Ho delle idee, ma sono ancora tutte in fase embrionale. Nella prossima stagione saremo in tournée con Chi ha paura di Virginia Woolf?, riprenderemo Lo zoo di vetro (per esempio a Roma, dove ancora non lo abbiamo fatto). A Milano riprenderò il monologo Scende giù per Toledo di Giuseppe Patroni Griffi. Poi farò una regia lirica al Regio di Torino, La donna serpente di Alfredo Casella, su testo di Carlo Gozzi e a Napoli metto in scena due opere molto legate alla drammaturgia napoletana, due classiconi: Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta e Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo.

 

Chi ha paura di Virginia Woolf?     Milano, Teatro Menotti      fino al 24 maggio 2015