Bernardo Bertolucci, film per pensare

È (e sarà) il regista simbolo della libertà e della frenesia dello sguardo, per il suo modo giovane e interrogativo di disegnare la vita, di rappresentare vite sullo schermo come fossero attimi rubati al fluire naturale delle cose. Dal 1962, l’anno del suo esordio con La commare secca (scritto da Pasolini) ad oggi (anzi, al 2012, con il suo ultimo film Io e te) Bernardo Bertolucci ha rappresentato il cinema della poesia e la poesia del cinema. Nouvelle vague assimilata e reinterpretata ad ogni film – sia che fossero piccole produzioni, sia che si trattasse dei kolossal che gli hanno valso premi, riconoscimenti e la notorietà a livello internazionale – ma con gli occhi ben conficcati nel presente, cercandolo con brama in ogni inquadratura e restituendolo con prepotenza attraverso i gesti stessi dei suoi personaggi. Debra Winger e John Malkovich che fanno l’amore nel deserto, Marlon Brando e Maria Schneider che ballano o si amano e capovolgono tutti gli stereotipi sull’amore, sul sesso, sulla fragilità diversa e opposta di uomini e donne. Film incompreso e celebrato, processato e condannato per offesa al senso del pudore, bruciato e mai dimenticato, sempre risorto più forte di prima, più ricco di prima, perché testimonianza vibrante di un cinema che metteva insieme istanze e fermenti in dissonanza tra il cinema francese e quello hollywoodiano.

 

Se è vero, come scrisse Billy Wilder, che il valore di un uomo sta nella cosa più bella da lui creata, il valore di Bertolucci sta in ogni inquadratura irrequieta del suo cinema, capace di racchiudere universi poetici profondi e misteriosi, ma anche aperti e generosi. Si pensi a L’ultimo imperatore (1988), che colpì a tal punto da fare del regista di Parma l’unico italiano a vincere l’Oscar per miglior film e miglior regista. Storia nella Storia, fatta di dettagli minuti, particolari di un modo autenticamente diverso di osservare l’uomo, pervaso di curiosità e saggezza, di ribellione e desiderio di trasgressione. Il presente politico, oltre che privato e intimo, letto con la lucidità di una fotografia che mostra tutte le ombre della politica e dell’umano agire e pensare.

 

 

“Faccio film non per esprimere pensieri ma per pensare”, diceva l’autore di un film sconvolgente come La tragedia di un uomo ridicolo (1981), in cui è presente l’universo più tagliente di Bertolucci, dove si incrociano le due facce della società italiana dei primissimi anni Ottanta, dove il contrasto generazionale genera ferite inguaribili e l’ambiguità del vivere appare insormontabile. Bertolucci,che conosceva a fondo la psicanalisi, sapeva far affiorare nei suoi film il vero di ogni situazione, reale o immaginaria che fosse, sapeva alludere ad un mondo intero attraverso un solo cenno e chiudersi in una cantina per raccontare la crescita di un ragazzo e la disperazione disillusa di una giovane donna. Aveva da poco terminato la sceneggiatura di un nuovo film, The Echo Chamber, da girarsi in tre stanze per celebrare la vita.