Clint Eastwood è stato ospite del Festival di Cannes per presentare la copia restaurata di Gli spietati e per tenere un incontro pubblico, moderato dal critico americano Kenneth Turan.
Gli spietati
Non vedevo il film da molti anni, forse venticinque, e avevo dimenticato tante cose. Avevo già fatto diversi western quando, nel 1980, mi proposero la sceneggiatura. La lessi, mi piacque, dissi che era meravigliosa, ma non pensavo di realizzarla, in quel periodo ero coinvolto in un altro progetto. Acquistai comunque i diritti. Mi dicevo che, nel caso di una sua produzione, sarebbe stato per me l’ultimo grande western. Da quel momento trascorsero dieci anni. Un mattino mi svegliai ricordandomi di avere ancora nel cassetto quel progetto, lo rilessi con maggiore attenzione e decisi di girarlo. Dovetti però convincere molte persone, qualcuno lo riteneva troppo violento. Per me, invece, Unforgiven (Gli spietati) è un film anti-violenza, un film per ribellarsi alla violenza.
Imparare dai maestri
Ho incontrato cineasti eccellenti, fin da quando ero impegnato in serie televisive tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In quegli anni registi famosi per i loro lungometraggi – come Laslo Benedek e Tay Garnett – lavoravano anche per reti di televisione. Ma ho anche imparato da registi meno bravi, perché si impara sempre, in questi casi quel che non si deve fare. In questo modo si apprende a non disprezzare, a non considerarsi mai più di quello che si è. Don Siegel, che detestava i produttori, affermava che se il regista non è sicuro del percorso da compiere tutta l’équipe si trova paralizzata e nessuno avanza, quindi è fondamentale che il regista sappia dove va.
Il western
Negli anni Trenta e Quaranta della mia infanzia il western era un genere molto popolare. I bambini sognavano di montare su un cavallo e poi di recitare come in un western. Non c’era la televisione e i film si seguivano più da vicino. Apprezzavo un po’ tutti, da Gary Cooper e James Stewart ad altri come Rod Cameron. Anche i western di serie B erano molto divertenti. Credo che il western piacesse e continui a piacere perché permette allo spettatore di fuggire, parla alla loro immaginazione in un’epoca in cui l’ordine e la legge dipendevano da ciascuno. Penso che sia sempre un sogno che però oggi non abbiamo più, che non possiamo più avere in una società organizzata.
La Grande Depressione
Sono nato agli albori della Grande Depressione, ma quando hai cinque o sei anni non puoi fare dei paragoni e non ti rendi ancora conto delle difficoltà e delle restrizioni che anche i tuoi genitori stanno affrontando. Quando cresci, comprendi e ringrazi la tua famiglia per tutti i sacrifici che ha fatto per i figli. In quegli anni ci spostavamo sovente da una città all’altra, da Sacramento alla costa. Oggi, di fronte alla recessione di questi anni, non ci si rende davvero conto di quel che accadde negli anni Trenta in America.
Gli esordi come attore e Sergio Leone
Al college mi chiesero di recitare in una pièce nel ruolo di un ragazzo ritardato mentalmente, anzi no, veramente stupido, per questo fui scelto! Io e un amico avevamo deciso di non presentarci il giorno della rappresentazione, poi ci andammo e il risultato fu disastroso, comico. Al termine, dissi che non avrei mai più fatto una cosa simile! In seguito, all’università di Los Angeles frequentai dei corsi serali d’attore. Negli anni Cinquanta ho fatto i primi lavori: piccoli ruoli, in diretta per la televisione oppure per dei film, sia televisivi sia lungometraggi. Verso la fine del decennio ho avuto un’audizione per uno show western della CBS, Rawhide (Gli uomini della prateria, 1959-1965), sono stato assunto e ciò mi ha permesso di cominciare a guadagnarmi da vivere facendo l’attore. Era un sogno che si concretizzava. Quell’esperienza durò sei anni. Ebbi il mio primo agente e mi fu proposto di andare in Italia per recitare nel remake western di un film giapponese. Dissi di no, avevo fatto ogni settimana un episodio western per la televisione e mi sarebbe piaciuto riposare un po’. Improvvisamente, lessi la sceneggiatura del film da girare in Italia di cui mi avevano parlato. Leggendola mi dicevo che non valeva nulla, ma poi compresi che era di qualcuno di cui ero un grande fan e che si sarebbe potuto fare un bel western. Accettai. Non ero mai stato in Italia e in Spagna. Con un piccolo budget fu fatto un ottimo film (Per un pugno di dollari, 1964). In seguito, Sergio Leone ottenne finanziamenti più consistenti per produrre i suoi western… immaginativi, stilizzati. Sergio era eccellente nella scelta dei volti e nel modo di filmarli. Lavorare con un cineasta europeo è stata per me un’esperienza positiva. Era un regista che aveva un modo differente di osservare, di vedere i film. Rifletteva, pensava più in fretta di chiunque altro. Ho avuto molta fortuna di averlo conosciuto, è stato il mio mentore. E grazie a lui e ai suoi film il mio nome ha iniziato a circolare.
La sceneggiatura e il set
Quando ho letto per la prima volta I ponti di Madison County non l’ho trovato interessante, poi mi sono detto che da quel romanzo avrei potuto trarre un film. Nel libro la storia è narrata da un uomo che descrive il suo incontro con una donna, la bella storia d’amore che nasce fra loro. Ho pensato che, invece, avrei potuto raccontare quella storia dal punto di vista del personaggio femminile. Quello è stato il mio punto di partenza. Anche a Meryl Streep non era piaciuto il romanzo. Le ho detto di leggere la sceneggiatura. Il giorno dopo mi ha richiamato dicendomi che dallo script si sarebbe potuto fare un buon film, accettando il ruolo. Ho invece adorato il romanzo di Dennis Lehane Mystic River (La morte non dimentica). Con Sean Penn c’era l’intenzione di fare qualcosa insieme e Mystic River è stata l’occasione perfetta, ha accettato immediatamente. Durante le riprese, Sean mi chiedeva se mi dava fastidio ripetere delle scene. Per nulla, gli rispondevo. A volte funziona il primo ciak, a volte no. È nella natura del film, dei personaggi, fare delle prove, ed è utile, quindi ho messo Sean e gli altri attori a loro agio affinché potessero dare il meglio. Quando giro un film, mi piace vedere la prima reazione degli attori mentre recitano i dialoghi per la prima volta. Non è del tutto vero che sia contrario a ripetere più volte una stessa scena. Dipende dalle situazioni. Da Don Siegel ho imparato una cosa importante: cerco sempre di ottenere una prima ripresa buona, lui era un sostenitore di questa politica, mentre altri cineasti ripetono così tante volte che alla fine tutti finiscono per annoiarsi. Per me la reazione iniziale degli attori è fondamentale. Altri pensano il contrario, ma io faccio sempre così. Talvolta il rapporto fra gli attori è difficile, ma cerco sempre di cogliere le improvvisazioni. Se c’è bisogno di ripetere non mi tiro indietro, ma se il primo giorno di riprese tutto funziona si crea da subito un’atmosfera positiva, indispensabile per continuare a lavorare bene insieme. Quando un regista è anche attore comprende meglio il sentimento dei colleghi davanti alla macchina da presa, le loro tensioni e ansie. Aiuta molto essere entrambe le cose.
L’istinto
Amo lavorare con le stesse persone, che si conoscono bene e con le quali si sono instaurate buone relazioni, fa parte della natura umana, dà fiducia. In un film è molto importante avere fiducia nell’équipe, si avanza velocemente in un clima di soddisfazione reciproca. Ascolto il mio istinto, quella piccola voce interiore spesso è una guida migliore dell’intelletto. Il film è una forma artistica riempita di emozioni, può anche essere intellettuale in forma di dettagli, ma sono le emozioni che premiano. Leggendo una sceneggiatura bisogna provare emozione, e poi questa emozione bisogna essere in grado di trasferirla sul set, comunicare quelle prime emozioni agli attori nel momento in cui si trovano a interpretare per la prima volta i loro personaggi. Questo è il mio modo di procedere. Bisogna lavorare duro, e se le cose si fanno difficili bisogna continuare, non avere paura. Ho avuto fortuna nella mia vita, sono felice della mia professione, ancora oggi. Il giorno in cui non lo sarò più smetterò.