Deflorian-Tagliarini: la vita, istruzioni per l’uso

23Vedere uno spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è un’esperienza. Vedere più spettacoli di Deflorian-Tagliarini, nell’arco di una settimana, è qualcosa che riconcilia con lo stare al mondo (oltre che con l’andare a teatro). Dal 9 al 14 maggio (con un’appendice a Casa Boschi Di Stefano il 15 e 16), il Teatro dell’Elfo di Milano ha dedicato alla coppia di autori, registi e performer una retrospettiva dal titolo Cinque modi di sopravvivere continuando a parlare. Cinque spettacoli in cui, in una forma apparentemente non strutturata, si parla di (r)esistenze. In Rewind Deflorian e Tagliarini raccontano agli spettatori Cafè Müller, il celebre spettacolo di Pina Bausch mentre lo guardano sullo schermo di un computer e, con grande naturalezza, parlano di se stessi, della Storia (dall’attentato di Kennedy alle torri gemelle), di 2001 Odissea nello spazio, di Marcello Mastroianni, di Johnny Depp e di Marilyn Monroe (commovente il momento in cui leggono la poesia che Pasolini le dedicò). In Reality fanno rivivere attraverso i suoi quaderni Janina Turek, donna polacca che per oltre 50 anni ha trasformato la sua vita in enciclopedia, annotando minuziosamente tutto ciò che le succedeva. Collegato a questo spettacolo l’installazione/performance rzeczy/cose che si fa percorso a ritroso sulla memoria e gli oggetti accumulati nel corso del tempo. E ancora Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (in cui sono in scena con Monica Piseddu e Valentino Villa) su quattro pensionate greche che decidono di suicidarsi per non gravare sulla società. Lo spunto è fittizio (sono le pagine iniziali di L’esattore, romanzo di Petros Markaris), ma il risultato è più vero del vero. Infine Il posto, un site specific creato appositamente per la casa-museo Boschi Di Stefano di via Jan. Sotto un tono informdef1ale e scanzonato si cela una riflessione profonda sul nostro stare al mondo e su quello che fa da sfondo alle nostre esistenze più o meno misere. Un modo per coinvolgere gli spettatori e per lasciare il segno, senza colpi bassi, ma creando un’empatia unica. Una poetica e uno stile che è valso alla compagnia importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Abbiamo incontrato Daria Deflorian e Antonio Tagliarini.

 

Partiamo dalla destrutturazione che operate sullo spettacolo classicamente inteso, anche in chiave antinarrativa. Ci raccontate come nascono i vostri lavori?

Daria Deflorian (D.D.): C’è un periodo di improvvisazioni, di raccolta di materiale come se fosse più un’indagine che la costruzione di uno spettacolo, non pensiamo mai a formalizzare i nostri dati, accumuliano indagini a seconda del progetto. Si tratta di tante cose, anche astratte: Antonio viene dalla danza, dalla performance, anch’io non ho mai amato la prosa quindi, pur facendo teatro, ho lavorato più in un ambito poetico-narrativo che teatrale. Nel tempo abbiamo capito che se fin dall’inizio pensi allo spettacolo inquini la ricerca e anche un po’ le stranezze perché cerchi di mettere vicino dei materiali che parlino subito bene insieme. Noi invece produciamo, rifacciamo, ogni tanto mettiamo in ordine i materiali e poi c’è uno stato di grazia che arriva a un certo punto, un’intuizione che non è interna ai materiali ma che è quella, mi verrebbe da sintetizzare, che prevede l’incontro con lo spettatore. Nel momento in cui ci poniamo la questione dell’invitare qualcuno dentro questa nostra indagine è come se quest’intuizione, ogni volta diversa, diventasse la drammaturgia dell’incontro.

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Lo spettatore è direttamente chiamato in causa…

Antonio Tagliarini (A.T.): Includiamo lo spettatore nel nostro pensiero. Il fatto che ci sono delle persone reali crea un principio di realtà: siamo in uno spazio scenico dove però c’è un pubblico in carne e ossa che è di fronte a noi, fa parte dello spettacolo dal vivo, è chiaro che siamo lì, adesso, in questo momento… Siamo con il pubblico.

D.D. I nostri non sono lavori provocatori, non tendono a stranire il pubblico. Non pensiamo di fare spettacoli radicali, siamo semplicemente figli del nostro tempo e la destrutturazione della narrazione la vediamo ovunque. È vero che non siamo direttamente narrativi, però tendiamo comunque a costruire qualcosa che accolga chi non sa nulla, non proponiamo la destrutturazione oggettiva, semmai seminiamo degli elementi destrutturati in una struttura. Quindi possiamo non incontrare il gusto dello spettatore, però, normalmente, il pubblico si sente incluso.

 

I cortocircuiti tra le storie e la Storia sono continui nei vostri spettacoli. Parlando del più e del meno e procedendo per associazioni di idee, aprite continui link con il mondo esterno…

D.D. Cerchiamo sempre di contestualizzare, di vedere un contesto storico che respira attorno a quello che facciamo, a quello che siamo. La questione dello sfondo è cruciale nei nostri lavori e mette anche in luce sempre più chiaramente un grosso limite che il teatro ha. Noi abbiamo provato a rompere questo limite cercando di non farcene condizionare troppo, perché la figura non è leggibile senza sfondo, le persone non sono leggibili senza contesto.

 

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Rewind mi ha fatto pensare all’incipit di Parla con lei di Almodóvar. Nei vostri spettacoli ci sono sempre molti riferimenti cinematografici (Kubrick, Herzog…)

D.D. Uno dei maestri del cinema che ricorre spesso nelle nostre conversazioni è Werner Herzog. Il suo modello di indagine, che è fortemente personale però anche fortemente interessato agli altri e quindi è da una parte stranamente soggettivo e dall’altra meravigliosamente altruista, ci ha condizionato positivamente per l’indagine di Reality. Ne abbiamo parlato tanto e in rzeczy/cose nominiamo Encounters at the End of the World, il suo documentario sul Polo Sud paragonando i pinguini a Janina, facendo un discorso sulla solitudine e sull’essere qualcuno di lievemente dislocato rispetto alla norma. Poi è chiaro che molto spesso nominiamo registi, film, attori, parliamo di Kantor, ma è l’immaginario che è fatto di libri, di film, di altri spettacoli. Includiamo nel piano della realtà dell’esperienza anche le esperienze indirette.

A.T. Il riferimento è ovviamente sempre all’Herzog documentarista che ci ha insegnato anche che nel momento in cui fai un’indagine hai delle continue scoperte, delle epifanie o delle delusioni. Come si possono mantenere nella struttura narrativa questi momenti? Bisogna avere in testa tutto il percorso. In Grizzly Man, per esempio, ci sono dei momenti in cui lui stesso probabilmente avrà pensato che Timothy Treadwell fosse un genio, poi un impostore, o un folle e, però, lui ha mantenuto queste sue scoperte, questi suoi pensieri, nella struttura del lavoro. Questo fa sì che anche noi come spettatori, in base alla sua scrittura, alla sua scelta, abbiamo reazioni analoghe.

D.D. In Grizzly Man fa questa cosa eticamente fondamentale, soprattutto quando si lavora su materiale reale che non è autobiografico, di non mostrare l’aggressione dell’orso, ma di limitarsi a far sentire l’audio. Ne abbiamo parlato tanto perché in Reality stavamo comunque parlando di una madre, sua figlia ci aveva accolto a casa, ci aveva mostrato i suoi diari. Per cui, la domanda è: «Dove mi fermo?» Per quanto in confidenza ci abbia raccontato delle cose, non andiamo a fare pornografia della vita degli altri.

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Il posto è stato creato per un luogo ben preciso, la Casa Boschi Di Stefano. Che tipo di lavoro è?

A.T. Domenica e lunedì ripresentiamo questo site specific che abbiamo realizzato nel 2014 e lì si è fermato perché è stato creato appositamente per quel luogo e vi è profondamente legato, per cui siamo contenti di riabitarlo. Ormai è diventata una casa museo ma è la casa in cui Antonio Boschi e Marieda Di Stefano hanno vissuto fino alla fine. Noi cerchiamo di restituire quella specie di sensazione di questa coppia che si è amata per tanto tempo, che ha collezionato mano a mano tutte queste opere e che poi con un gesto di una generosità incredibile ha aperto e regalato tutto alla città di Milano. Una bellissima storia…

 

cose_4856Cosa avete in cantiere?

D.D. Siamo in prova, con un lavoro che debutterà a metà novembre. Si chiama Il cielo non è un fondale e facciamo un salto piuttosto acrobatico, di cui non conosciamo ancora il risultato, invertendo la questione della figura e dello sfondo e mettendo quindi in primo piano lo sfondo, le condizioni di vita, le città… Il tema è enorme, non abbiamo un soggetto preciso, non abbiamo scelto una storia proprio perché avrebbe significato di nuovo mettere in primo piano una figura. C’è un noi come massa, come folla, come gente, la città, i luoghi, il condizionamento che operano sui rapporti. Ma siamo ancora in una fase di studio. Ci piace molto il tema perché riporta anche la complessità della realtà dentro lo spazio astratto del teatro: non solo la realtà delle persone, ma anche dei luoghi, degli spazi.

 

Il posto          Casa Boschi Di Stefano

domenica 15 e lunedì 16     h. 19 – 20.15 – 21.30

www.defloriantagliarini.com

www.elfo.org