Emiliano Morreale, L’ultima innocenza: storie di fantasmi e fallimenti

Docente, critico, saggista, tra i massimi esperti di cinema, nonché firma del Venerdì di Repubblica, Emiliano Morreale ha da poco pubblicato la sua prima opera narrativa: L’ultima innocenza (Sellerio, 2023, € 16), tante storie  – su personaggi poco conosciuti ma tutti abitati dal fuoco del cinema – legati da un narratore che ha più di un tratto in comune con lo stesso Morreale. I racconti sono incentrati su Giuseppe Greco, figlio del mafioso Michele, detto il “papa”; di Michal Waszyński, regista ebreo polacco (autore di Il Dybbuk, «una produzione che evocava millenni di cultura del suo popolo e avrebbe segnato la sua vita») che finisce i suoi giorni da principe a Roma; di Douglas Sirk, nato Detlef Sierck, e di Veit Harlan, regista di regime, e dei rispettivi figli; di Anna, protagonista del film omonimo di Alberto Grifi; del «più grande studioso di cinema pornografico italiano» e di Dorothy Gibson, attrice del cinema muto sopravvissuta al naufragio del Titanic e finita in galera a San Vittore con Mike Bongiorno e Indro Montanelli. Racconti appassionanti «per far risalire storie e fantasmi» con momenti surreali estremamente divertenti e con una malinconia di fondo che ben restituisce il senso di fallimento insito in ogni più o meno grande impresa. Un esordio riuscitissimo. Ne abbiamo parlato con Emiliano Morreale.

 

Da cosa sei partito per scrivere questi racconti?

Era cominciata come una raccolta di biografie che mi piacevano. Ho ritrovato di recente alcuni messaggi credo del 2018 in cui accennavo a questo progetto. Poi con il Covid, non avendo niente da fare, ho tirato le fila. L’ho proposto a Sellerio quasi tre anni fa. Ma man mano che scrivevo il tutto prendeva un’altra forma perché in alcune biografie c’ero di mezzo io: ho conosciuto Giuseppe Greco, mi piaceva raccontare la storia di Anna attraverso gli occhi della mia assistente che conosceva bene Grifi, alla Cineteca ho lavorato. Molte di queste storie sono sconosciute ma in qualche modo qualcuno le aveva in parte già raccontate e allora l’idea era legarle tra loro e fare in modo che avessero un senso al di là della singola storia. E poi è successo che mentre le scrivevo e le facevo leggere, gli amici mi dicevano che spesso la parte più divertente, o comunque quella che mi riusciva meglio – forse anche perché è più facile -, era quella dove c’ero io. Che poi in realtà non sono io… insomma, l’io narrante. Che all’inizio quasi non c’era, poi si è allargato e a un certo punto ho capito che dovevo trovare il modo di farlo rientrare in tutti i capitoli.

 

Anna di Alberto Grifi

 

Nella nota d’autore dici: «Il gioco di partenza di questo libro era semplice: libertà di invenzione nella parte in prima persona, con un narratore più o meno fittizio, e divieto di invenzione nelle biografie storiche». È stato davvero così?

Sì, nella parte storica al massimo qualche invenzione può riguardare minuscole scene di dettaglio che immagino siano potute avvenire, per esempio nell’ultimo capitolo, quello di Dorothy. Ma lo dico esplicitamente che lo immagino un po’ come un film, immagino di vedere ciò che le è successo (comunque tutte cose che le sono realmente accadute). Nella parte in prima persona invece ho finito con l’inventare un personaggio.

 

Sei molto bravo a giocare sui generi, il libro è insieme storia di fantasmi, detective story, racconto gotico, storico…

Il racconto del porno è proprio una ghost story, e in parte lo stesso meccanismo c’è anche nel secondo racconto con l’arrivo nella Cineteca (l’archivista alto due metri che apre il portone sembra il maggiordomo del castello di Dracula che fa visitare le segrete – tra l’altro è vero che l’archivista è altissimo e davvero mi fece fare questo giro). Mi piaceva mescolare il porno all’horror per raccontare il porno però come fosse un racconto gotico: il capitolo è anche un omaggio abbastanza trasparente a Michele Mari. Comunque gli spunti più incredibili anche in quel caso sono veri, i due autisti che sono venuti a prendermi per andare a Viterbo a presentare l’antologia Racconti di cinema

 

Crema, cioccolata e pa…prika di Michele Massimo Tarantini

 

Hai scelto un verso di Rimbaud per il titolo…

Ci ho messo forse più tempo a trovare il titolo che a scrivere il libro. Non volevo ci fosse la parola “cinema” e l’idea che fosse una citazione letteraria mi piaceva. L’ultima innocenza più che di citazioni cinematografiche abbonda di citazioni letterarie (messe a volte un po’ per scaramanzia, per gioco segreto o per pura vanità solitaria), per esempio il finale del racconto sul porno con la ragazza che guarda con uno sguardo da cieca è un omaggio a Mrs Bathurst, un racconto di Kipling sul cinema.

 

Rivelaci un’altra citazione…

Il giudice del processo contro Andreotti che va a vedere i film di Tarkovskij al cinema Lubitsch era una specie di omaggio mio privato a Emanuele Trevi per quella bellissima scena di apertura di Sogni e favole, in cui in un vecchio cineclub cadente alla fine della proiezione di Stalker incontra Arturo Pattern e grazie a lui Cesare Garboli. Per questo ho messo Tarkovskij. Doveva essere un omaggio di cui non si sarebbe accorto nessuno, ma visto che me lo chiedi… E poi ci sono espressioni, giri di frasi, parole rubate un po’ dovunque.

 

Il Dybbuk di Michal Waszyński

 

La tua scrittura è molto potente, cinematografica, riesci a far visualizzare i luoghi e le situazioni che descrivi.

A volte ho fatto un po’ fatica perché non credo di essere molto bravo a raccontare storie, nemmeno a parole, mentre mi appassiono molto a descrivere (e infatti questo libro è pieno di parti descrittive, una cosa che credo non si usi più tanto). Quindi mi sono appoggiato a queste storie vere che mi aiutavano, c’erano già e bastava non rovinarle, e mi sono concentrato più sullo stile, sul ritmo. Di intrecci ne ho inventati pochi. All’inizio il narratore mi somiglia, anche se molte cose sono inventate, poi man mano ha una vita completamente sua. La cosa più simile a una storia inventata è la cornice del racconto finale, con l’io narrante che accoglie suo malgrado in casa uno sceneggiatore quasi psicopatico. Comunque l’io narrante non ha un nome, la sua città non ha un nome (però è una città dell’hinterland di Palermo che invece è chiamata per nome). In maniera antifrastica è appunto definita «la terra dei sogni».

 

A un certo punto fai una bella radiografia del maschio contemporaneo («Swann da precariato intellettuale, Werther in andropausa»). 

Ci tenevo molto a questo versante, perché ho letto un sacco di libri (per tacere dei film) su maschi trentenni, quarantenni, cinquantenni, magari tutti un po’ cinici e disillusi, che alla fine in realtà risultano fighissimi. Io volevo invece evitare il più possibile il compiacimento: a me i personaggi come l’io narrante del libro fanno anche un po’ schifo. Anche perché mi somigliano, e come dice Marcello nella Dolce vita, «siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi». Insomma, la disillusione mi va bene, il cinismo meno. Non credo di esserci riuscito fino in fondo (quando usi la prima persona singolare rimani sempre un po’ attaccato al personaggio), però ci ho provato per mesi.

Il libro è in realtà diviso in due parti: la prima sono storie più di avventura, di padri e figli, la seconda sono ricerche impossibili di personaggi femminili, anzi fantasmi femminili. In realtà spesso i racconti e romanzi che parlano di cinema parlano dei fantasmi del femminile. Persino negli Ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald il protagonista insegue il fantasma della prima moglie. Chissà perché, ma ho l’impressione che quando in un racconto o un romanzo viene descritto o raccontato un film, mi pare che il tono, l’emozione, il movimento della pagina traccino il profilo di una donna.

 

Dorothy Gibson

 

Chiudi su una frase lapidaria: «E invoco più luce».

Ecco, non so se si capisce (temo di no), ma la mia idea è che alla fine l’io narrante vada incontro a un fallimento totale, meritato, una resa completa, in un certo modo quasi una morte. «Più luce» sono le ultime parole di Goethe in punto di morte («Mehr Licht»), ma la cosa che mi piaceva è che tutte queste immagini, il cinema, lo spettacolo… vanno a finire a imbuto in una stanzetta, nella fine di ogni esperienza: non c’è più storia, non c’è più vita, non ci sono più sentimenti – e l’ultima immagine che arriva dopo che hai visto cinemoni, cinemascope, technicolor… è quell’immaginetta sul cellulare, probabilmente l’accompagnamento visivo di quello che si chiama sexting. Qualunque cosa sia, è comunque un’immagine cieca perché sulla pagina c’è solo scritto: “(Foto)”.

 

Hai scritto un libro malinconico, con parti estremamente divertenti.

Sono tutte storie di fallimenti, di fantasmi, è pur sempre il libro di un signore alle soglie dei 50 anni. È quasi un libro di commiato da una serie di cose. Tecnicamente risulta essere un esordio, ma è, non so come dire, un esordio d’addio? Non so se si può dire così.

 

Ma è anche un inizio o no? Ti è piaciuta l’esperienza? Continuerai?

Il problema è che mi è piaciuto e mi sa che continuerò. Però nel caso temo che dovrò cambiare argomento, del resto il libro si chiama L’ultima innocenza. Non è che posso continuare a fare l’elegia del cinema. Però ci sono sempre meno cose che mi fa piacere fare: e allora, per citare i versi famosi di Dorothy Parker, tanto vale scrivere.