Federica Fracassi e Luca Micheletti: Rosmersholm – Il gioco (fantasmatico) della confessione

Federica Fracassi e Luca Micheletti hanno scelto di portare in scena Rosmersholm, scritto da Henrik Ibsen nel 1886, nella riduzione di Massimo Castri. Via quindi tutti i personaggi di contorno per questo “monodramma a due voci” che si concentra sulla relazione contorta tra Johannes Rosmer, ex pastore luterano, e la sua governante Rebecca West, alle prese con misteri, sensi di colpa, impegno politico e felicità irrealizzabile. Lo spettacolo si apre con gli attori già in scena, stesi su due tavoli e circondati da fiori appassiti, come cadaveri in una sala mortuaria a cui gli spettatori rendono omaggio e che tornano in vita per raccontare la loro storia. Un’atmosfera che ricorda Giro di vite di Henry James con fantasmi che aleggiano e ambienti che influenzano l’azione, ma sarebbe più corretto dire l’inazione. Un dramma da noi poco rappresentato che mostra la grandezza di Ibsen nel precorrere i tempi (nel 1916 Freud analizzerà il caso di Rebecca West nel saggio Coloro che soccombono al successo, ma già Groddeck si era occupato dell’opera da lui definita «una riflessione sulla debolezza umana»), e presenta il padre della drammaturgia moderna sotto un inedito punto di vista. Ne abbiamo parlato con Federica Fracassi e Luca Micheletti (che firma anche la regia).

Perché per il “percorso Ibsen” avete scelto Rosmersholm e Peer Gynt?

Luca Micheletti (L.M.) È un percorso che si snoda un po’ a ritroso, infatti partiamo da Rosmersholm, un testo oscuro da tutti i punti di vista che Ibsen scrive nell’ultima parte della sua vita e ritroviamo un Ibsen quarantenne, molto più anomalo, che è quello del Peer Gynt. Anomalo perché, benché tratti ancora del fallimento e del fallimento esistenziale, è molto più fiabesco, fantastico da tutti i punti di vista. Non che il fantastico esuli da Rosmersholm, ma è un’opera più cupa, a tinte gotiche. Le due opere rappresentano due amori distinti che poi si sono riuniti perché Peer Gynt era una mia passione e Rosmersholm una passione di Federica, che mi ha sollecitato a mettere gli occhi su questo testo poco frequentato dai nostri cartelloni. Sicuramente non sono i suoi classici più noti quelli che abbiamo scelto di mettere in scena ma, nell’anno del centocinquantennale di Peer Gynt, può essere l’occasione di vederlo anche alle nostre latitudini con un occhio diverso.

Federica Fracassi (F.F.) Avevo iniziato a rileggere un tomo di tutte le opere di Ibsen e mi sono molto stupita che Rosmersholm non fosse un’opera così frequentata. Ovviamente mi aveva colpito che fosse stato un cavallo di battaglia di Eleonora Duse, ma soprattutto mi aveva colpito Rebecca e il ruolo ben definito che Ibsen le assegna con questa doppia valenza tra il privato e il politico. Perché come primo moto Rebecca entra nella casa dei Rosmer per rivoluzionare, o credendo di rivoluzionare, un ordine costituito. Le donne di Ibsen sono sempre degli agenti disturbatori e perturbatori all’interno di un sistema, che spesso falliscono, come fallisce anche Rebecca. È come se ci fosse un’apertura che poi va a chiudersi, invece, sul livello più sentimentale, di pathos perché Rebecca si innamora di Rosmer. Sicuramente una creatura con tanti livelli, incluso quello psicanalitico, anticipatorio, di tutta una serie di rimozioni, a partire dal probabile incesto, che diventa un caso di Freud. Io l’ho vista proprio un po’ come la cipolla di Peer Gynt, ci sono tanti strati in questa donna. E da parte di Ibsen c’è tanto coraggio: apre numerose porte all’interno di un testo che poi non vuole chiudere, ma preferisce lasciare in sospeso. È un aspetto molto interessante da giocarsi a livello scenico per gli attori, perché è una continua provocazione aperta, un continuo fingere cosa veramente pensiamo dell’altro, di noi stessi, cosa vogliamo rimuovere…

 

È un testo che parla del potere e della manipolazione: Rebecca, ma anche Rosmer, manipolano gli altri, ma a loro volta si lasciano manipolare…

L.M. La grande intuizione di Castri che abbiamo fatto nostra è probabilmente anche quella di aver acceso, più di quanto non sia in Ibsen, il rapporto di questa coppia nefasta che va a costituire una sorta di Macbeth ibseniano. Sono due innamorati terribili in qualche modo e, come dice Groddeck, il cuore della vicenda è il dissidio, sia nelle intenzione che poi negli esiti, tra volere e potere perché questi effettivamente vogliono, poi quando effettivamente gli riesce quel che vogliono, forse non lo vogliono più o non lo volevano così. Si tratta di un tormento che a un attore – sia in rapporto con se stesso che con un partner di scena – dà l’occasione di riflettere sull’agire in assoluto e, visto che noi ricostruiamo degli atti, è anche un bel discorso sul mestiere dell’attore, sul fingere, sulla manipolazione, anche dei sentimenti perché quante maschere cambiano costoro? Ed ecco allora l’intuizione di scambiarsi i ruoli e osservarsi dall’esterno con gli occhi dell’altro, risentendo le parole che si sono dette in una vita precedente, senza chiarire. Forse è questo il dato fantastico che rende giustizia a quell’Ibsen più novecentesco di cui in fondo, credo, si sente ancora il bisogno perché è davvero un nostro grande classico contemporaneo però, a volte, imbalsamato nei suoi salotti, rischia di non arrivare così diretto.

F.F. Fulvio Ferrari (docente di Filologia germanica, ndr) ha detto che ciò che cercava Ibsen era la verità non come dato di fatto, ma considerata come una coincidenza tra azioni, parole e verità interiore. I suoi personaggi non riescono a trovarla, o ci riescono goffamente, però sono costantemente alla ricerca di questa verità. E questo aspetto è universale. Quindi la nostra scelta di stare in costume, molto semplicemente, va in questo senso perché sentivamo che quello che potevamo dire era davvero universale, e dandogli una cornice probabilmente avrebbe avuto ancora più potenza…

Massimo Castri all’epoca della riduzione (1980) parlò di «uno scontro tra due astrazioni». Rebecca e Rosmer sono personaggi, ma in qualche modo sono anche un po’ istanze…

L.M. Castri ha fatto un lavoro drammaturgico per uno spettacolo, il suo copione di fatto è la traduzione in forma drammatica di un’idea registica. Qui è stato fatto un lavoro un po’ forzoso su Castri, nel senso che abbiamo preso il suo copione come una riduzione, tenendo l’idea forte di eliminare tutti gli altri personaggi di contorno, ma poi il taglio registico è molto lontano dal suo. Lo abbiamo anche citato, visto che la radio – o meglio le radio – erano nel suo spettacolo e offrivano l’occasione di ricostruire in maniera un po’ strutturalista, com’era la sua predilezione di quegli anni, questa drammaturgia borghese da smontare, da rimontare, da osservare dall’interno. Nel nostro spettacolo diventa più un dispositivo in funzione del percorso di queste figure, quindi sì, diventano effettivamente delle istanze, ma non delle mere occasioni di riflettere su due astrazioni ideologiche. È più una riflessione sulla metamorfosi della volontà e del potere e della volontà di potenza perché proprio come Macbeth questa tragedia borghese, se così la posso definire, è una grande tragedia politica perché racconta di quando il politico si scontra con il privato e quindi il senso di colpa dell’io impedisce la grande opera sociale, rivoluzionaria. È questo il grande tema di Rosmersholm, non è soltanto una storia d’amore contrastato, ma è la storia dell’amore per l’umanità contrastato.

F.F. In effetti questo cortocircuito tra pubblico e privato, tra ideale politico e ideale personale è molto fecondo. Rileggendo I demoni di Dostoevskij mi è venuto in mente che quando si riesce a raccontare una storia a livello universale, con una portata più politica, gli ideali spesso cozzano con delle situazioni personali. E sei maggiormente coinvolto anche come spettatore, come attore, nel momento in cui hai degli agganci, magari meschini e piccoli, che però riguardano gli esseri viventi nella loro imperfezione. Questi due livelli Ibsen, con vari equilibri, li ha sempre pensati, e in Rosmersholm in maniera maggiore…

 

Lo spettacolo parte dalla fine. Rosmer e Rebecca tornano dal regno dei morti per raccontare la loro storia. Sono come in un limbo…

L.M. Essendo il dramma della paralisi niente è più paralizzante della morte effettiva e poi loro incontrano la morte nell’ultimo atto, una morte che, dice Groddeck, ha anche qualcosa di mostruosamente ironico. Scelgono come liberazione la morte – ma è una scelta talmente meschina rispetto alle prospettive esistenziali che si erano ripromessi – che non si sa se farsi prendere dallo sgomento o ridere del destino non di questi due, ma dell’umanità in generale che spesso inciampa sulla soglia della camera da letto. L’idea di raccontare questa paralisi da due cadaveri che riprendono vita – e quindi ricostruiscono a posteriori quello che è stato il loro percorso umano, quando ancora erano dotati di una possibilità che ora gli manca – è da un lato ancora più fantastica, ma dall’altro feroce. È un po’ una grande marcia funebre per una rivoluzione tentata e non riuscita, che è forse la rivoluzione dell’amore, argomento che ha interessato Ibsen soprattutto nell’ultima fase della sua vita. Lui ha riflettutto sempre sul fallimento, anche Peer Gynt è una grande tragedia in forma di grottesco sul fallimento esistenziale e sulla mistificazione della realtà. In maniera diversa anche Rebecca e Rosmer mistificano la realtà, se la raccontano diversamente da come essa è, vorrebbero agire per cambiarla, fare la rivoluzione, e di fatto invece collassano e annegano letteralmente dentro loro stessi, dentro quel turbine dell’io che poi vent’anni dopo diventerà l’ossessione di un secolo da Freud in avanti.

 

Per certi aspetti (penso alla rimozione) Ibsen anticipa la psicoanalisi…

F.F. Sicuramente il passato è un altro elemento fondamentale in Ibsen, e soprattutto la rimozione del passato.

L.M. È molto interessante il carteggio tra Freud e Groddeck su Rosmersholm. Freud sostiene che Rebecca West dica la verità quando confessa di essere colpevole o responsabile in larga parte del suicidio di Beata. Groddeck non è assolutamente d’accordo, è convinto che menta perché la vera colpevole è la moglie del rettore, come nei gialli un personaggio laterale. Forse ha ragione Groddeck perché a rileggere bene gli indizi, non tutto torna… Al di là di questo, quel che conta è quanto effettivamente poco i due protagonisti abbiano un’attitudine investigatoria e quanto, invece, vogliano vedere nell’altro ciò che vogliono vedere e quanto, in realtà, questa storia d’amore sia una storia di proiezioni fantasmatiche, Rebecca e Rosmer amano fantasmi.

 

Di fatto la ricerca del colpevole non interessa a nessuno…

L.M. Le opere di Ibsen, nella loro apparente semplicità, contengono spesso un mistero. Rosmersholm è più che mai un mistery, ha qualcosa di poliziesco. Addirittura ci sono le governanti che sanno più dei padroni, ci sono lettere portate, allusioni, delatori, quello che minaccia, creature dell’inquietudine che vengono ad abitare questa casa, origliano dietro le porte, però al di là di questo, è un testo con un mistero al suo interno che non si comprende, o forse si può spiegare in tanti modi che equivale a dire che è misterioso e resta tale. Non ci si spiega la ragione di certe scelte, per esempio perché la seconda volta Rebecca rifiuta la proposta di matrimonio di Rosmer? Che cosa sanno davvero l’uno dell’altra e in assoluto di tutto quello che è accaduto? Questo è molto interessante per capire non solo se c’è un colpevole come in un giallo, ma per rendersi conto di quanto è inutile ai fini ultimi del destino dell’umanità.

F.F. Io continuo a stupirmi di quanto poco interessi agli stessi personaggi sapere veramente l’uno dell’altra. Possibile che Rosmersholm fa una domanda sul passato di Rebecca, lei abita lì da anni, fa la governante… È interessantissimo questo aspetto, come se fosse un’atmosfera che hanno respirato nella loro diversità per molti anni e ha portato a un atto di questo tipo, si amano o amano l’idea? Neanche da parte loro c’è una curiosità da investigatore…

Il pubblico, durante lo spettacolo, è intorno a voi. Come vivete questa vicinanza?

F.F. Siamo piacevolmente stupiti, c’è un’attenzione pazzesca, un grande rispetto di questo mistero, è come entrare davvero un po’ nella nostra testa. Poi nel momento dello scambio delle giacche, abbiamo scelto di alzare leggermente la luce come se fosse un tribunale, come se per una volta potessimo vedere questi altri fantasmi che ci giudicano, oltre a noi stessi che ci giudichiamo vicendevolmente. In effetti abbiamo sempre avuto la sensazione, anche quando lo abbiamo fatto a Roma in uno spazio più piccolo, di essere a nostra volta circondati da altri fantasmi. Comunque per noi la presenza del pubblico così vicina è importante e mi sembra lo sia anche per il pubblico.

L.M. È una chiave fondamentale di questo allestimento, essere lì, non solo perché lo spazio si presta a essere una camera ardente, ma anche un’aula di tribunale con una giuria che si sente sempre di più chiamata a prendere una posizione sui fatti e, forse, non ha indizi sufficienti per poterlo fare o viene ingannata a ripetizione da questi giochi delle confessioni…

 

A proposito del sottotitolo… Da dove viene Il gioco della confessione?

L.M. Non è di Ibsen, ma di Castri che lo usò non come sottotitolo, ma come titolo di più sezioni del suo copione: “Il gioco della confessione n. 1”, “Il gioco della confessione n. 2” perché effettivamente Rebecca e Rosmer si confessano però di fatto disdicendo nella confessione numero 2 quello che hanno detto poco prima. Se qualcuno si prendesse la briga di rimettere insieme i pezzi, si renderebbe conto che la vicenda non quadra: uno dice di non sapere, poi viene fuori che, invece, sapeva. Sono creature ambigue, probabilmente specchiarsi negli occhi del pubblico, in quei rari momenti in cui li incrociamo per davvero, da un lato fa identificare lo spettatore con questa stessa ambiguità e forse l’esperienza dell’ambiguità, così come quella della metamorfosi, è quello che uno cerca quando compra un biglietto per andare a teatro: scoprire mondi che hanno leggi diverse da quelle di tutti i giorni.

 

Avete fatto un lavoro straordinario, restituendo un Ibsen a cui non siamo abituati…

L.M. Abbiamo fatto emergere la parte più magica di un autore che spesso si è fin troppo blindato dentro a un realismo non del tutto chiaro, perché ciò che per Ibsen era realismo non è il realismo come lo intendiamo noi, era un modo di osservare la realtà senza infingimenti. Quando lui parla del realismo nella famosa lettera a Bjørson subito dopo aver scritto Peer Gynt nel 1867 dice: «Io adesso mi metterò a fotografare la realtà come fossi un fotografo» ed elenca ciò che fotograferà. Parla del bambino nel ventre della madre, non dice del mondo, non ha in mente un realismo di natura imitatoria, fotografica, mimetica della natura e basta, ma evidentemente di una natura interiore. Penso sia arrivato il momento di restituire a Ibsen tutta questa verticalità.

 

Milano           Teatro Franco Parenti          fino all’11 febbraio

Lo spettacolo, insieme al Peer Gynt (che sarà in scena dal 3 al 22 aprile) fa parte di un focus che il Teatro Franco Parenti dedica al padre della drammaturgia moderna e comprende anche la mostra fotografica Nient’altro che finzioni con gli scatti realizzati da Valentina Tamborra che accompagnano il diario di bordo scritto dalla stessa Fracassi durante il loro viaggio in Norvegia, oltre a incontri letterari, musicali, laboratori, lezioni (qui il programma).