Girare attorno al centro. Il cinema di Abbas Kiarostami

Dov’è la casa del mio amico?
Dov’è la casa del mio amico?

Non aveva mai lasciato il suo paese, neppure quando, dopo l’avvento al potere di Mahmoud Ahmadinejad nel 2005, decise che avrebbe fatto solo film all’estero per la sua opposizione al regime conservatore. Decisione che cambiò i paesaggi e le storie del suo cinema, da sempre indirizzato verso le piccole cose e i gesti di nascosta quotidianità, ma non cambiò lo sguardo, coerente, profondo, libero e morale. Perché fin da subito il suo scopo è di porre in primo piano non solo uomini, donne e bambini (questi ultimi sono i protagonisti dei primi film, cortometraggi dall’approccio documentaristico prodotti dall’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti), ma lo stesso dispositivo cinematografico, come occhio capace di osservare una realtà che va ben oltre le apparenze e si infila nelle pieghe di storie inimmaginabili, traendone ispirazione. Basti pensare alla trilogia composta da Dov’è la casa del mio amico?, E la vita continua e Sotto gli ulivi. Un gioco di rincorse e di riprese, dove dettagli di un film diventano il centro della riflessione del film successivo, e così via. Il film che genera il film, l’immagine che genera l’immagine. Ed ecco la magia malinconica de Il sapore della ciliegia, il meccanismo svelato di Ten, la leggerezza di Five, l’esattezza di un film misterioso come Copia conforme, palindromo da vedere da inizio a fine e da fine a inizio.

Copia conforme
Copia conforme

“Bisogna vedere la realtà tangibile da vicino e ciò richiede del tempo. Ci si deve concentrare e osservare attentamente. Solo allora, diventa possibile trovare e capire all’interno di quest’idea di partenza, gli elementi che meritano di essere conservati e concretizzati”, spiega Kiarostami, e non si tratta solo di quello che si vede, ma di come lo si vede in quanto il cinema si pone come strumento che ne manipola la percezione, strumento teorico per eccellenza. Approfittando del buio di una galleria il piccolo Puya, in viaggio con il padre verso una regione dell’Iran settentrionale devastata dal terremoto, si sdraia sul sedile posteriore dell’auto ma continua a guardare fuori dal finestrino. I titoli di testa di E la vita continua scorrono ma il film è già iniziato molto prima, ad un casello dell’autostrada fuori Tehran dove il viaggio ha inizio. Perché c’è sempre un viaggio da iniziare nel cinema di Kiarostami, ci sono strade da percorrere che proseguono oltre la collina, dove lo sguardo non può più arrivare, ci sono persone da incontrare, uomini e donne con cui parlare, volti da osservare e piccole storie che devono essere ancora raccontate. E questo lungo percorso che padre e figlio compiono in auto, non è che un omaggio alla divagazione, l’erranza di due sguardi lasciati liberi di vedere, dopo che gli eventi (il terremoto) hanno avuto luogo. Per questo si lascia la strada maestra e si prosegue attraverso deviazioni improvvisate e soste impreviste, perdendo di vista il tempo e lasciando fuori campo il dolore e la morte. Il motivo dominante va cercato nell’atteggiamento aperto, libero e disponibile del punto di osservazione, attratto non tanto dalla meta da raggiungere, quanto dal cammino che si dovrà compiere. Come dire che per raccontare una cosa, se ne deve raccontare un’altra, spostare la macchina da presa per cercare, così, di andare a toccare il cuore vero delle cose.

Il vento ci porterà via
Il vento ci porterà via

Il viaggio, allora, diventa il pretesto per la scoperta del cinema e dello sguardo, e il finestrino dell’auto è lo strumento per portare all’estremo l’astrazione di quei personaggi e di quei luoghi. Nel suo girovagare cinematografico Kiarostami ha sempre mantenuto identico il suo approccio. Non importa se di fronte a lui c’erano i bambini africani di ABC Africa o i protagonisti impreparati di Il vento ci porterà via, o, ancora, gli attori di Like Someone in Love, ultimo film del regista iraniano, interamente girato a Tokyo. “Durante il lavoro devo trasformare me stesso invece di trasformare i miei attori, penso ad un cambiamento fondamentale: al posto di modificare la loro natura per crearne un’altra, penso che sia più giusto andare verso di loro. A mio giudizio questo garantisce l’esattezza di un comportamento, di un’impostazione, di un’atmosfera in un film. E, al di là di tutto, proprio questo salvaguarda la nostra fede e ci permette di credere in un film”. Una dichiarazione che basta a descrivere il suo metodo, e le innumerevoli possibilità che si trasformano in cinema. Per il suo ultimo film, Abbas Kiarostami trova in Giappone una nuova svolta, che accoglie lievemente, senza apparenti straordinarie trasformazioni. Come in Ten, anche qui il film è un viaggio che si compie sul volto dei suoi personaggi. Primi piani arditi per durata e significato, intensi per velocità e lentezza. In una città quasi invisibile, nascosta ma compresa fino in fondo, si mette in scena un gioco diurl contrapposizioni impossibili, dove vedere vuol dire cercare di vedere ciò che non viene mostrato. Tutto, in fondo, era iniziato con un dolce equivoco, quasi uno scherzo, una sfida tra il film e lo spettatore: in una discoteca, una ragazza è impegnata in una conversazione conflittuale con il fidanzato. Però non se ne vede il volto perché la macchina da presa resta fissa sul paesaggio indistinto di uomini e donne seduti ai tavoli. Sentire senza vedere, il progressivo divenire delle cose è l’anticipazione di quello che verrà, in forma opposta. Arriverà il controcampo, e vedremo il volto di Akiko, ma questo primo spazio vuoto ha già condizionato gli sguardi e l’unica contrapposizione possibile, che si ripeterà d’ora in avanti, sarà quella tra verità e dissimulazione, una di fronte all’altra, ma separate da un vetro. Simile a Copia conforme, e al tempo stesso diverso. Like Someone in Love finisce, appunto, con un gesto definitivo che spezza tutti gli incanti concentrici, tutti i piani sequenza che accerchiano il reale e assecondano l’illusione di verità. Come il doppio giro in taxi attorno alla piazza della stazione di Tokyo, mentre Akiko osserva la nonna che l’aspetta da ore. Appare lontana, nonostante la sua voce registrata sulla segreteria telefonica accompagni parte del tragitto. Anzi, proprio per questo ancora più lontana.

Il gusto della ciliegia
Il gusto della ciliegia

Torna in mente Il gusto della ciliegia, il girovagare rotondo del protagonista, il suo cercare fuori dal finestrino, ma anche il farsi sera improvviso in una sola inquadratura di Dov’è la casa del mio amico? Il cinema che trasforma il mondo, mentre le manifestazioni del mondo trasformano il cinema. Ci mancherà per questo Kiarostami, e per la sua rara autorevole leggerezza.