Dopo il debutto dello scorso anno a Bolzano, è attualmente in scena all’Elfo di Milano (per poi proseguire in una breve tournée) I vicini, il nuovo spettacolo di Fausto Paravidino. Un’opera che mischia sapientemente commedia, horror, thriller per parlare delle nostre paure siano esse immaginarie o reali. Dialoghi serrati e ineccepibili e un cast azzeccatissimo per confermare, se mai ce ne fosse bisogno, il talento di un grande autore, regista e interprete.
La paura nel tuo spettacolo è a 360 gradi. C’è la paura dei fantasmi, dei nuovi vicini, della guerra…
I miei personaggi hanno paura di quello che non conoscono, di quello che è fuori di loro perché hanno paura di cambiare. Noi dobbiamo cambiare, vogliamo cambiare però contemporaneamente ne siamo terrorizzati. Un po’ è inevitabile, un po’ è desiderato, ma come tutti gli eventi trasformanti ci atterrisce. Se ne parla nella pièce quando si dice che «gli uomini non vanno più in guerra e le donne non fanno più i figli». Quelli erano tradizionalmente i due grossi eventi trasformanti che ci capitavano verso la fine dell’adolescenza. Adesso la società si è organizzata un po’ meglio, cercando di non mandare più gli uomini in guerra e di non rendere obbligatorio fare figli a 20 anni per essere delle donne… Però, in questo modo, siamo diventati orfani dei grandi eventi trasformanti che determinano la crescita, l’accesso a un’età adulta e senza questo strappo la nostra paura della trasformazione diventa qualcosa che ci accompagna e con cui dobbiamo fare i conti. È una paura che viene da tutto ciò che è fuori di noi perché tutto ciò che è fuori di noi ci terrorizza: i fantasmi perché sono fantasmi, i vicini perché conoscere altre persone significa trasformarsi, fare entrare qualcosa dentro di noi e quando ciò avviene noi non siamo più noi, siamo diversi.
Da questo punto di vista, i vicini potrebbero essere visti anche come dei vampiri? Il “farvi entrare” che ritorna nel testo richiama la tradizione secondo la quale i vampiri non possono entrare in casa se non invitati.
Sì, certo. Non ci avevo pensato, però sicuramente. C’era anche un bel film su questo argomento, Lasciami entrare di Tomas Alfredson…
Capire cosa è vero e cosa è falso, la realtà e la finzione. È qualcosa che ha molto a che fare con la creazione teatrale e che, insieme, permette di spostarsi su un altro piano.
Sì, decisamente. Mi interessa molto quell’altro piano, di quella realtà che è un po’ fuori dalla realtà, che non riusciamo a capire e che non sappiamo bene come chiamare. Non sappiamo se sia legata ai sogni, per cui è qualcosa che fa il nostro cervello o alla fallibilità della memoria, per cui è un’altra cosa che fa il nostro cervello (ma non è la stessa cosa che fa quando sogna). C’è il sogno, l’immaginazione, la fallibilità della memoria, oppure l’inconnu, il regno dei morti, Dio, tutto quello che non riusciamo a spiegare. Anche essendo laici e materialisti come me dobbiamo fare i conti con una realtà incomprensibile o perché è metafisica o perché è di futura comprensione, ma se è di futura comprensione è comunque incomprensibile allo stato attuale. Da un lato ci terrorizza, dall’altro ci diverte molto perché sennò faremmo algebra invece che fare arte.
È molto interessante il lavoro che fai sui generi, crei la tensione, la sdrammatizzi rimanendo sempre in bilico e realizzando una commedia con venature horror.
Da questo punto di vista ci siamo presi un piccolo rischio. Ci chiedevamo se saremmo stati capaci di riuscire a tenere insieme la suspense, il genere horror e la commedia, senza che si danneggiassero a vicenda, soprattutto senza che la commedia danneggiasse il thriller perché è il genere più delicato. Far ridere non è facile, ma è un po’ più semplice che far paura.
Quello dei vicini è un tema molto cinematografico, da La finestra sul cortile a I vicini, da L’inquilino del terzo piano a Uno sconosciuto alla porta… Sono riferimenti presenti quando scrivi uno spettacolo?
Entrano in ballo successivamente, non nella scrittura perché in quella fase mi sono occupato di scrivere la pièce pensando davvero soltanto al teatro. Poi, nel momento di metterla in scena, ovvero di fare una regia con la tecnica e la tecnologia, e di parlare con gli attori, lì entra il cinema perché è la lingua che conosciamo meglio. Se devo fare un esempio a qualcuno, tiro fuori un film, non un libro o uno spettacolo. Il nostro bagaglio culturale, il nostro terreno comune è quello cinematografico, non è quello teatrale. Non posso mica citare l’allestimento del Giardino dei ciliegi di Strehler, chi l’ha visto?
Gli attori sono tutti perfettamente in parte. Oltre a Iris Fusetti che interpreta Greta e che lavora sempre con te, come hai scelto il resto del cast?
Con Davide Lorino ci conosciamo da vent’anni, eravamo a scuola di recitazione insieme e con lui ho lavorato abbastanza spesso, l’ultima volta è stato in Exit. Anche con Monica Samassa, il fantasma o meglio la fantasmessa, è un po’ che lavoro, questo è il terzo spettacolo. Ho cominciato con Il diario di Maria Pia, che era il diario della morte di mia madre, e lei interpretava mia mamma che andava a morire e adesso torna come fantasma… Con Sara Putignano, invece, è la prima volta. Le avevo fatto un provino anni fa per Exit poi avevo scelto un’altra attrice, ma mi ricordavo di lei. Mi sembrava molto giusta per questa storia. Primo perché è molto brava e a me piace che gli attori siano molto bravi, e poi è un’attrice molto giovane che ha qualcosa di antico. Mi piaceva che la coppia dei vicini portasse qualcosa di antico perché la pièce è contemporanea, ma è in relazione con il passato rappresentato dalla vecchia. E allora mi piaceva che i vicini che sono il doppio della coppia composta da Greta e dal compagno (che sono postmoderni, non si capisce se lavorano, non lavorano, non sono sposati, non fanno i figli, fanno tutte le cose sbagliate che facciamo noi…), portassero una certezza antica, soprattutto nelle parole di lui.
Parole a dir poco reazionarie…
Terribilmente reazionarie. Ma come tutto ciò che è reazionario contiene una regola di natura, noi ci opponiamo perché noi esseri umani abbiamo fatto il progresso per non essere tiranneggiati dalla natura, ma la natura è la natura.
Dopo Texas, film da te diretto e interpretato nel 2005, non hai più fatto film…
In realtà, dopo Texas ho scritto delle cose che non sono ancora riuscito a fare, ma ci sto lavorando. Il cinema è un processo industriale molto complesso e soprattutto molto difficile da incastrare con il teatro. Sono due lavori che da un certo punto di vista sono simili, ma dal punto di vista industriale si odiano, per cui per noi attori e registi è veramente un tormento cercare di fare le due cose. Sono processi industriali terribilmente diversi: il teatro vive di programmazione e il cinema di improvvisazione. Non sai se il film che devi fare partità il mese prossimo, tra un anno o mai. Se lo devi intrecciare tra due anni con la produzione di uno Stabile diventa un inferno perché il teatro vive, e ciò avviene sempre di più, di programmazione. Addirittura sulla triennalità e anche questo è strano. Ma va ricondotto al fatto che quelli che hanno i soldi non sono esattamente gli artisti. In più quando c’è una crisi economica – ormai da 4 o 5 anni, mentre la crisi teatrale c’è, da che io mi ricordi, da 20 anni perché prima non ho ricordi – la situazione peggiora. Le crisi non mettono coraggio, mettono paura.
La critica continua a etichettarti come “giovane” talento. Solo in Italia si continua a essere giovani a 38 anni, soprattutto dopo tutto quello che hai fatto.
C’è tanto paternalismo, per cui continuerò a rimanere “una giovane promessa” per autodifesa di Lavia, Orsini, dei direttori degli Stabili fino a quando qualcuno davvero giovane non mi farà, giustamente, la pelle.
La tournée de I vicini
Milano Teatro Elfo Puccini fino al 15 febbraio
Crema Teatro San Domenico 16 febbraio
Bolzano Teatro Cristallo 18-19 febbraio
Chiusi Teatro Mascagni 3 marzo
Trieste Teatro Rossetti 6-8 marzo