Mancare il punto o mancare di coraggio: su Netflix ACAB, la serie di Michele Alhaique

Durante gli scontri in Val di Susa, la situazione si fa tesa e il caposquadra Pietro Fura (Fabrizio Nardi) viene colpito alla schiena da una bomba carta contente chiodi che lo infortuna gravemente. Il collega Mazinga (Marco Giallini) prende il comando e lancia la squadra all’inseguimento che termina co n un manifestante pestato e in prognosi riservata. Il fatto diventa un caso nazionale a cui la squadra di celerini deve far fronte mentre ognuno dei singoli agenti ha a che fare con la propria vita devastata da problemi personali gravi che lo schiacciano, riuscendo a ritrovare un senso solamente all’interno delle logiche tribali del gruppo che diventa l’unica realtà a cui aggrapparsi. Mentre le vite di tutti si complicano progressivamente, il caso del ragazzo ferito prende una china sempre più spinosa da cui il gruppo sembra non riuscire a uscire indenne. ACAB, di Michele Alhaique (Romulus, Bang Bang Baby),  arriva su Netflix con il peso del confronto con un precedente adattamento del libro di Carlo Bonini, quel lungometraggio di Sollima che costituisce una pietra di paragone niente affatto di poco conto. A livello visivo il confronto è felice, la produzione seriale italiana non è certo ferma a Don Matteo. La lezione di Romanzo Criminale, di Gomorra e di tante serie è qui perfettamente compresa ed efficacemente messa in atto. ACAB gode di un ritmo elevato, da thriller, i tempi funzionano e la visione è fluida, l’occhio è pienamente soddisfatto da una messa in scena credibile, in un paio di passaggi suggestiva che rende la serie esteticamente credibile a livello internazionale.

 

 
Il punto di ACAB si trova nel contenuto. Se si parla della Celere in Italia si parla di politica, piaccia o meno. Il reparto è legato a determinate dinamiche e pensarlo senza non ha semplicemente senso. E sì, la serie è scritta con sufficiente intelligenza da non lasciarla del tutto fuori ma, da un certo punto di vista, sembra quasi un McGuffin. Sì, è citata il minimo sindacale, quanto basta, ma poi l’attenzione si sposta quasi del tutto sulle vicende umane di un gruppo di persone che messe insieme raccoglie una quantità disarmante di sfighe che aprono la strada al cliché dello sbirro dal volto umano, che sì è violento ma in fondo in fondo proprio cattivo non è, ha sempre una ragione più o meno valida per alzare le mani e comunque ha questo vissuto che in qualche modo se non lo giustifica tout court quantomeno funge da attenuante. Qui il confronto con Sollima è perso. Se il lungometraggio non fa sconti e spinge sulla somiglianza per certi aspetti pure necessaria tra le due parti in causa, i celerini e gli ultras nella fattispecie, la serie fa un passo indietro e opera un inserimento, per più di un verso forzato, di un’etica differenziante, del “una differenza tra voi e loro ci deve essere” che rende ACAB di Netflix un prodotto che aspira a essere più ecumenico e meno spigoloso andando a perdere tutta la forza dell’aporia che il lungometraggio di Sollima esprime nella prima scena, con il protagonista che canta “Celerino figlio di puttana” con un senso che qui cambia totalmente di valenza andando a rafforzare i cliché della forza del gruppo e dello sbirro dal volto umano.

 

Le immagini sono di Marco Ghidelli/Netflix © 2024