Cinema silenzioso contro ogni rumore in Billy, di Emilia Mazzacurati

Sembra siano le fasi lunari a scandire i tempi della vita a Imelia – inutile cercarla perché non esiste come ci informa la stessa regista nella bella intervista che su queste stesse pagine pubblica Marì Alberione – microcosmo del nord Italia, periferia di una periferia della città invisibile dai confini non disegnati, ma reali. È proprio vero che Mazzacurati abbia lavorato su un’assenza a cominciare dallo sfrangiarsi continuo del racconto, come una specie di impasto impazzito che non tiene, ma che alla fine sa restituire un esito positivo nel piatto. Billy (Matteo Oscar Giuggioli), è un diciannovenne che vive con la madre, Regina (Carla Signoris), svampita e ancora piacente, del tutto sradicata da ogni contesto, ma in fondo felice, che si fa guidare dalla fida donna tuttofare Jocelyn (Kristina Hermin). Non c’è traccia del padre e lui vive in questo microcosmo dagli ampi spazi, inseguendo l’amore di Lena (Benedetta Gris) e trascorrendo i pomeriggi con un gruppo di ragazzini nella roulotte, suo rifugio, a giocare a qualcosa che assomiglia al Monopoli. Conosce Zippo (Alessandro Gassman) un senza casa e senza famiglia, un suonatore mancato, un disperato che si scoprirà avere, invece una ricca prole. Massimo (Giuseppe Battiston), invece, è un vigile del fuoco che ha paura del fuoco, è innamorato di Regina, che scoprirà si chiama in realtà Elettra. I nonni, non si sa di chi, fanno i nonni e hanno i volti di Sandra Ceccarelli e Roberto Citran.  È in questo variegato ambiente, vera monade di una più larga provincia, che il film si svolge. Una provincia che – anche per espressa dichiarazione della stessa regista e sceneggiatrice oltre che autrice del soggetto – prende a prestito l’immaginario americano da quel cinema che ce lo ha fatto conoscere, dalle dense solitudini di Hopper che iperbolizzano ogni percezione, illanguidendo lo sguardo che sceglie derive differenti.

 

 

Lo stesso accade, in realtà per le scelte fotografiche del film, ma perfino per i suoi cromatismi notturni, per un racconto che sembra lavorare nel buio di una memoria che si illumina all’illuminarsi della luna. Emilia Mazzacurati aveva esordito con un fantasioso cortometraggio Manica a vento passato al Torino FF che ci fece conoscere l’animo sensibile della regista, ereditato per diretta discendenza, pronta a catturare moti dell’animo e invisibili sentimenti. In modo non dissimile lavora in questo racconto che si presenta perfino fragile, sia sotto un profilo narrativo, sia sotto quello del suo complessivo impianto. Sotto il primo aspetto poiché la storia quasi non esiste, in una specie di comune accezione che vede anche sulla pagina scritta una progressiva rarefazione del racconto a favore di una evidenza maggiore riservata all’intimità dei personaggi; sotto il secondo perché la discontinuità narrativa rischia di diventare un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Ma accogliamo con piacere la mano ferma dell’autrice che raccoglie la sfida e compone un film che si consuma nell’insolita esistenza dei suoi personaggi, con Billy che prova a inventarsi una vita lontano dalla famiglia e da ogni insofferenza.

 

 

Dunque Billy che ha tutti i numeri per diventare un racconto di formazione per il suo giovane protagonista è in realtà quello che la sua regista ha voluto che fosse e cioè un racconto di formazione, ma per gli adulti. È del tutto evidente nel film l’inversione delle parti tra adulti e bambini. Questi ultimi consapevoli della difficoltà della vita, dal mutamento climatico alla consapevolezza delle dinamiche familiari, e, invece, gli adulti svampiti e irresponsabili, padri e madri mancati incapaci di radicare nella vita che vivono qualche certezza da trasmettere e in perenne bisogno di sostegno. Metafore esplicite di quello sfilacciamento delle relazioni che è così difficile legare, come accade nell’infinita storia che forse non è d’amore, ma di reciproco bisogno tra Massimo e Regina. Emilia Mazzacurati cerca una propria strada e se il film dimostra qualche vuoto e qualche incertezza, oltre che qualche indulgenza, poiché tutto questo mai accade per maldestra imperizia, ma solo per un eccesso di zelo, si potrebbe dire, nel desiderio di esaltare i sentimenti inesprimibili, che tutto diventa accettabile. La sua asciutta composizione sembra assorbire tante lezioni del cinema americano, ma anche di quello europeo più noto e nobile, dal primo Wenders ai più vicini autori, tanti, che hanno trovato nella provincia (viene in mente Piccola patria di Alessandro Rossetto, peraltro delle stesse aree geografiche) il luogo ideale per la formazione propria e dei propri personaggi. Un cinema silenzioso che combatte ogni rumore e per questo perfino un po’ fuori tempo, ma non vintage. A proposito Imelia è l’anagramma di Emilia, il nome della regista, e così sappiamo anche cosa alberga nel suo animo visto che il cinema è quello specchio falso che restituisce sempre e comunque il vero.