La morte solitaria di Kim Ki-duk

Oggi Arirang risuona come uno strano memento. Nel giorno in cui si apprende con non poco sgomento della scomparsa di Kim Ki-duk, è quasi banale che riecheggi quel canto d’amore, di dolore e di contrizione che il grande regista sudcoreano aveva consegnato a quel film con cui era riapparso a Cannes nel 2011, dopo tre anni di autoesilio sui monti, in una ascetica performance di sé, perfettamente coerente con il suo cinema di esiliati spirituali. E in una sorta di esilio drammaticamente casuale Kim Ki-duk se n’è andato, protagonista di una morte così lontana (Lettonia) e così vicina (complicazioni da Covid, dicono i lanci d’agenzia) che lascia un po’ straniti e non poco malinconici. Perché Kim Ki-duk è stato un grandissimo autore e giunge troppo presto al termine di una parabola trionfalmente disfunzionale, in cui il suo autentico tormento interiore aveva trovato nell’arte la ragione di una vita iniziata in maniera difficile, da orfano, ai margini della miseria. Una vita da tradurre in forma simbolica ed espressiva piena di pathos, spiritualità, violenza, inconciliabilità, penitenza, redenzione…È stato il primo, a inizio millennio, a lanciare sulla scena internazionale quel cinema sudcoreano oggi così forte e importante: nel 2000 a Venezia tutti notano L’isola, che non era nemmeno il suo primo film, ma il quarto di una serie potentissima iniziata con Coccodrillo. Tutti lavori sulla dispersa tristezza della solitudine, sulla marginalità delle ferite interiori incise su corpi duri e apparentemente insensibili. Ed è stato non di meno il primo a farsi caparbiamente mettere ai margini da quella stessa cinematografia che mal lo sopportava, tanto rispettato quanto evitato in patria per la sua indomabilità (caratteriale e artistica) di fronte a un cinema nazionale sin troppo strutturato. I film Kim Ki-duk alla fine se li produceva da sé ed erano dipinti (un po’ come i suoi fiammeggianti quadri) su una tela ruvida, quasi un saio penitenziale. Il meraviglioso, durissimo e inconciliato Bad Guy resta forse il punto d’arrivo della sua stagione più assoluta, prima che il suo percorso lo portasse a spazi di riflessione simbolica tanto plastica quanto astratta, in cui materia e spirito combattevano la guerra che sino ad allora aveva contrapposto desiderio e solitudine, carne e sentimento, silenzio e preghiera. La tartaruga che trascina la grossa pietra legata al suo carapace in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera resta l’immagine simbolo di un autore che di lì in avanti (La samaritana, Ferro 3, L’arco, Time, Soffio…) si sarebbe spinto in una ricerca spirituale e psicologica nitida, precisa, simbolica rispetto all’individuo e alla società. L’immagine di questa lontana morte, che ha trovato Kim Ki-duk in solitudine, in un ospedale della Lettonia, dove stava cercando casa per girare il suo nuovo film (magari un nuovo Arirang, col quale tornare dopo esser finito nello schiacciasassi del #Metoo per le accuse di più attrici, da cui era stato infine assolto), porta netti i contorni del suo magnifico cinema, così grafico e fisico, eppure così sfumato e spirituale… Il cinema di un monaco materialista, che anelava l’ascesi ma cercava la realtà.