Mario Mascitelli: L’ultima partita, la storia di Lou Gehrig

Lou Gehrig è stato il più grande prima base del baseball. Con gli Yankees disputò, in 17 anni di carriera, 2130 partite senza fermarsi mai. Soprannominato “il cavallo d’acciaio” per la sua resistenza, dovette arrendersi alla diagnosi di una malattia che non gli lasciava scampo: la sclerosi laterale amiotrofica (detta anche morbo di Ge2016-Mario-MASCITELLI-in-teatrohrig). Un campione nello sport e nella vita che nel discorso di commiato pronunciato il 4 luglio 1939 allo Yankee Stadium si congeda dai suoi tifosi dicendo: «Nelle ultime due settimane avrete sicuramente letto dei miei problemi. Eppure sono l’uomo più fortunato sulla faccia della terra». Muore due anni dopo, a soli 38 anni. Hollywood gli rende subito omaggio e, nel 1942, esce L’idolo delle folle di Sam Wood in cui Gary Cooper veste i suoi panni. Adesso a ripercorrere la sua vicenda sportiva e umana è Mario Mascitelli, attore, regista e direttore artistico del Teatro del Cerchio di Parma, nonché allenatore di baseball della Nazionale juniores e nel team del Parma Baseball, con L’ultima partita, la storia di Lou Gehrig da lui scritto, diretto e interpretato. Un’ora e dieci di spettacolo in cui, da solo su un palco che ripropone un campo da baseball, commuove e diverte il pubblico facendo rivivere una leggenda. Lo abbiamo incontrato.

 

Ci racconti la gestazione di L’ultima partita?

Da sempre volevo fare uno spettacolo sul baseball, in quanto sono coinvolto in prima persona. Tutti gli spettacoli che ho realizzato si fondano su una ricerca nel sociale e nel popolare. Però ho anche la fortuna di fare uno spettacolo quando veramente ne sento l’urgenza (l’ultimo che ho scritto risale al 2009). La storia di Lou Gehrig andava raccontata e negli ultimi cinque anni mi ci sono dedicato, documentandomi in maniera approfondita sulla sua vicenda personale oltre che sportiva. La difficoltà stava nel trattare una malattia molto particolare, di cui non si conoscono ancora né le cause né le cure, ma che ti spegne piano piano, senza cadere nel retorico. Accanto a questo c’era la difficoltà oggettiva di raccontare uno sport, il baseball, molto difficile da spiegare a chi non lo conosce, fatto di statistiche e pieno zeppo di regole. Partivo da mille strade diverse e solo due settimane fa ho avuto l’illuminazione. Ho buttato ciò che avevo scritto fino ad allora e riscritto tutto. Non è stato difficile, le cose si sono incastrate e tutto quello su cui avevo lavorato ha trovato la sua collocazione dando forma allo spettacolo.

 

Un personaggio tragico e una storia esemplare quella di Lou Gehring, chiusa da un discorso di commiato che commosse e ancora commuove ed è considerato uno dei punti più alti dello sport.

Sì, c’erano 42.000 persone accorse a salutarlo allo Yankee Stadium di New York. Non era nemmeno previsto che parlasse, doveva ricevere un premio e invece, prende il microfono e fa questo discorso in cui dice che nonostante tutto è l’uomo più fortunato del mondo. Gehrig è davvero l’esemplificazione del sogno americano, un immigrato dell’Impero austro-ungarico, che vive in condizioni di grande povertà e trova il riscatto nello sport. Ma, anche qui, tutta la sua carriera è all’ombra di Babe Ruth e quando quest’ultimo viene ceduto e, finalmente, arriva il suo momento si ammala e deve ritirarsi.

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Sei riuscito ad affrontare il tema della malattia senza cadere nel patetico e nel ricattatorio…

Mi fermo nel momento in cui iniziano i sintomi. All’epoca nessuno sapeva nulla di questa malattia. Il primo medico che lo visita dice che si tratta di infiammazione alla cistifellea e gli prescrive una dieta. Ma lui, che è un battitore, si rende conto che qualcosa continua a non andare perché durante una partita batte una palla che rotola vicino a lui. A quel punto si reca da un neurologo. C’è un’immagine molto bella che lui utilizza quando dice: «Sono come un guardiano notturno che spegne una alla volta le luci di una fabbrica lasciandola al buio». Dopo una settimana riceve la busta con il referto che non lascia spazio a nessuna speranza.

 

Su che materiale ti sei basato?

In Internet il materiale è sterminato. Poi ho trovato dei libri negli Stati Uniti, in particolare mi sono concentrato su due testi che si sono rivelati utilissimi. Uno ha un approccio statistico e analizza giorno per giorno, dall’inizio della carriera, le performance di Lou Gehrig. Il secondo, attenendosi ai fatti, fa una cronaca fedele della sua vita. Avevo così tanto materiale che è stato difficile scegliere cosa tenere e cosa tralasciare. Comunque è anche uno spettacolo divertente, soprattutto quando si parla del rapporto un po’ morboso con questa madre teutonica (per fare un esempio, in casa Gehring si parlava tedesco e Lou viene rimandato proprio in quella lingua e si giustifica dicendo: «In casa lo parliamo, mica lo scriviamo»).

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Nello spettacolo fai ricorso anche a immagini inedite molto particolari.

Essendo uno spettacolo che si rivolge al pubblico teatrale, a quello sportivo, ma anche ai bambini, un riferimento visivo poteva essere utile. Ho trovato materiali davvero curiosi: un cartoon sul baseball del 1930 molto divertente. Poi ci sono immagini da un film western che Lou Gehring ha interpretato dal titolo Rawhide (in italiano Fascino del West), in cui si difende tirando palle da biliardo addosso ai banditi. E ancora foto di un book in cui compare in pelle di leopardo perché ho scoperto che quando Johnny Weissmuller decide di ritirarsi, lui si candida per il ruolo di Tarzan. Poi non venne scelto, ma è interessante vedere questo percorso in uno come lui, che era timidissimo. Inevitabilmente con la malattia tornò a chiudersi in se stesso e dopo il ritiro non si seppe più nulla di lui fino alla morte.

 

Hai visto il film L’idolo delle folle con Gary Cooper?hqdefault

Lo avevo visto 15-20 anni fa, ma non ho voluto rivederlo mentre preparavo lo spettacolo per non farmi condizionare. Ho qualche vago ricordo, ma penso sia un ottimo film sul baseball.

 

Nelle note di regia citi un altro film incentrato sul baseball che è L’uomo dei sogni con Kevin Costner nei panni di un agricoltore che per riconciliarsi con il padre morto costruisce un campo da baseball, in cui si ritrova a giocare con i grandi campioni del passato.

Sì, ho usato come riferimento la frase che lui dice: «Se lo costruisci, rivivrà». Nello spettacolo ho infatti scelto che fosse Lou Gehrig a raccontare Lou Gehrig. Nei miei spettacoli precedenti, c’è sempre un momento in cui mi faccio narratore, ma qui no, è tutto in prima persona. È una sorta di fantasma che ritorna a raccontare la sua storia.

 

Nello spettacolo costruisci un’interessante analogia tra il baseball e il teatro…

Sì, quando Lou va a battere con la mazza e si trova davanti tutta la squadra avversaria schierata, è come un attore che sta per fare un monologo davanti al pubblico. Ma nel baseball, proprio come a teatro, non sei mai davvero da solo: c’è una squadra dietro, anche se in certi momenti può sembrare una sfida tra te e tutti gli altri.

 

L’ultima partita sarà in tournée nella prossima stagione?

C’è stato un grande interesse intorno allo spettacolo. Prima ancora del debutto, c’è stata una grande condivisione tra giocatori e appassionati di baseball in tutta Italia. Poi me lo hanno chiesto a Roma, a Milano. La stessa Federazione di Baseball vuole usarlo come evento legato a manifestazioni importanti. Vedremo… Intanto sono contento per il commento positivo dell’addetto stampa della Federazione che mi ha detto che sono riuscito a spiegare il baseball in modo chiaro ai neofiti. Un bel risultato.

 

Parma         Centro sportivo “Aldo Notari”        27 luglio
www.teatrodelcerchio.it