Mauro Gervasini ci guida alla scoperta di Se continua così – Cinema e fantascienza distopica

Mauro Gervasini

Con Se continua così – Cinema e fantascienza distopica (pag.156, euro 14, Mimesis Edizioni) Mauro Gervasini propone un saggio molto stratificato, brillante, che fa emergere il fatto che, con il passare del tempo, il distopico si è fatto assoluto, non ha più bisogno di una motivazione esterna, il congelamento di una società disgregata è dato per scontato, e di per sé è giustificazione per lo sviluppo del racconto. Il punto è che il distopico ha a che fare con l’inconcepibile (fine dela civiltà e/o dell’umanità) e come risposta spesso l’immaginario propaga un libertarismo scontato, con un’azione individualista, sganciata da elaborazioni politiche. Gervasini va a caccia di sentimenti, scenari, desertificazioni, traslittera la sindrome del sopravvissuto (attraverso un furioso incrociare di film e romanzi, scrittori e registi). Guarda con straniata coscienza all’orrore infinito di una realtà che in fretta ha rappezzato i suoi frantumi, illudendosi di potere convivere con la normalizzazione della follia. Ha certamente ragione Gianni Canova che nell’introduzione avverte: « sotto l’ombrello protettivo dei capolavori fondativi del genere (Metropolis di Fritz Lang, 1984 di George Orwell) l’immaginario contemporaneo produce a getto continuo narrazioni che ci mettono in guardia, che ci invitano a stare all’erta, che prefigurano quello che potrebbe accadere. Il rischio è che la realtà – come sempre più spesso accade – imiti l’arte, che la vita collassi nella finzione e ne assuma le forme e i modi ». Il saggio parte dalle distopie del Novecento per affermare che la dittatura della tecnologia, la sua estrema pervasività, oggi sono accettate senza dare giudizi di merito. Cosa che ha permesso al mainstream di impadronirsi di ambienti distopici con estrema naturalezza (lo certifica il successo dell’innocua saga Hunger Games).  Con Se continua così si naviga fra gli alti e i bassi dell’epopea del distopico, bordeggiando la verità genocida della (fanta)scienza, con una visionarietà fredda che si spinge lodevolmente ad esplorare i confini del genere. (In apertura un’immagine tratta da Rollerball di Norman Jewison).

 

 

 

 

 

La distopia, dal greco dys-tópos (il luogo negativo) è l’antiutopia, prodotto del secolo scorso. Perché hai deciso di occupartene ora? Pensi che sia un momento di snodo? E si può immaginare che approdo avrà?

L’idea di un libro sulla fantascienza distopica mi è venuto durante il lockdown, in quei giorni ho letto per la prima volta 1984 di George Orwell che mi ha veramente entusiasmato e da lì è partito un ragionamento sul genere. Mi è servito anche per elaborare l’emergenza sanitaria che di fatto rendeva tangibile la distopia, costringendoci a vivere una situazione allucinante fino a poco prima immaginabile solo nei libri, nei fumetti o al cinema. Credo che la distopia sia il filone più contemporaneo della fantascienza, per cui continueremo a ragionarci su per un bel po’.

 

 

Blade Runner di Ridley Scott

 

Trovo molto interessante che una delle pietre angolari del tuo saggio sia il rapporto romanzo-film. Come hai scelto gli scrittori e i film? Tenendo anche conto che ci troviamo spesso di fronte opere assolutamente lontane. Caso di scuola Do Androids Dream of Electric Sheeps? e Blade Runner. Un romanzo non distopico che lo diviene sullo schermo…

Per me l’analisi comparata libro-film resta, quando possibile, imprescindibile. Ho sviluppato questa sorta di metodo molto tempo fa, lavorando sul polar. Dire che letteratura e cinema sono linguaggi differenti è un’ovvietà, ma io parto da un altro presupposto, ovvero che partecipano entrambi alla creazione del medesimo immaginario. Per cui, se ti interessa quel determinato immaginario, e io da qui voglio partire, il confronto diventa inevitabile. Se per Blade Runner ci limitassimo a studiare il film sarebbe come costruire un tavolo senza una gamba. E aggiungo una cosa, che ho scoperto lavorando al testo. Il rapporto libro-film può essere fecondo per entrambi. Nessuno, mi pare, prima che lo facessi io, aveva fatto il confronto tra Rapporto di minoranza di Philip K. Dick e Minority Report di Spielberg, eppure, sottolineando le diversità e i “tradimenti” del film rispetto al libro, si scoprono molte cose sulla opposta sensibilità politica dei due autori. Quanto alla scelta, mi sono concentrato soprattutto sui libri che conoscevo bene o che ho avuto la possibilità di rileggere. In ogni caso anche in mancanza di trasposizioni esplicite alcuni romanzi non potevano non essere considerati data l’influenza più o meno diretta che hanno avuto su tutto il filone, penso ad esempio a Il tallone di ferro di Jack London o a Noi di Zamjatin.

 

 

Spiazzante l’idea di inserire riferimenti alla musica. Lo si deve alla tua anima rock. Certo che qui ti sei mosso in un oceano come hai pescato?

C’erano un sacco di spunti. Gli Iron Maiden hanno intotolato un loro disco Brave New World come il classico distopico di Aldous Huxley, in italiano Il mondo nuovo. Io poi sono un appassionato dei Pink Floyd che sulla distopia hanno detto molto, il loro legame con la fantascienza oltretutto lega tutte e tre le ere del gruppo, dall’Astronomy Domine di Syd Barrett al Dark Side of the Moon di Roger Waters fino ai “segni di vita” di David Gilmour. E non dimentichiamoci che il romanzo-faro del mio testo, ovvero Metallo urlante di Valerio Evangelisti, è suddiviso in quattro capitoli che si intitolano Metallica, Pantera, Sepoltura e Venom. Più (hard) rock di così…

 

Esiste una relaziona esplicita fra la fantascienza distopica e potere. La analizzi da Metropolis in poi. Quali sono le costanti che hai trovato? Quali i risultati più covincenti?

Certo che esiste: il primo romanzo esplicitamente distopico della storia, il già citato Il tallone di ferro, è anche un libro politico, scritto da un convinto socialista. Una costante è il ricorso al regime dittatoriale come proiezione delle possibili derive della democrazia. Dick era ossessionato dall’idea che il governo americano fosse una dittatura subliminale, e parliamo degli anni di Kennedy e Johnson. La saga di Purge, da noi La notte del giudizio, già nel 2012 si immagina uno scenario politico trumpiano ma la cosa più sensazionale è la preconizzazione, attraverso la distopia politica, del ricatto, o del baratto, proprio di ogni tendenza all’autoritarismo: io governo, io autorità, ti assicuro qualcosa, di solito più sicurezza, in cambio di qualcos’altro da parte tua, di solito la libertà. È quello che dice nero su bianco una legge come il Patriot Act, voluta da W. Bush ma ratificata anche da Obama, seppure con qualche aggiustamento. In questo senso il risultato più alto lo si trova in Rollerball di Norman Jewison. Nel film vivono tutti benissimo, perché il regime assicura benessere diffuso. Basta che non gli rompi le scatole. Anche Gianni Canova nella prefazione sottolinea questo aspetto: «le distopie sono immaginazioni di mondi dominati dal controllo (…) ma nascono quasi sempre – nella mente di chi le progetta – come tentativi di rendere il mondo migliore». Questo nodo teorico dice dell’ambiguità del genere, che peraltro esplose da subito, come dici tu, fin da Metropolis. Esiste un film politicamente più ambiguo di quello?

 

Il cyberpunk propone un’accettazione della tecnologia che permette un maggiore controllo sociale, ma che si fa al tempo stesso strumento per chi vuole combattere, ribellarsi. Gli dedichi un ricco capitolo. Che valutazione dai di questo filone?

Come scrivo, il cyberpunk è un filone soprattutto letterario. Poi se ne sono appropriate, specie in Europa, correnti di pensiero e di agire politico. Molti antagonismi anni 80-90, diciamo indicativamente tutta la galassia post punk, hanno avuto in questa fantascienza, che definisco sovversiva, un punto di riferimento, anche oltre le intenzioni degli autori. Mi sembra un fenomeno straordinario e che attiene solo al genere. Anche l’horror, o il fantastico in generale: quando Valerio Evangelisti fonda la sua rivista le dà il nome di una vampira, ma la mission è chiara sin dall’intestazione: «letteratura, immaginario e cultura d’opposizione» (https://www.carmillaonline.com/). Valerio non si riconosceva nel cyberpunk ma ne apprezzava la funzione sociale, oltre che culturale, due cose per lui coincidenti. Il cinema delle grosse major come può essere parimenti sovversivo? Certo Matrix è un titolo epocale, ma il massimalismo è tutto negli indipendenti, nei piccoli, eXistenZ di Cronenberg, Tetsuo di Tsukamoto…

 

eXistenZ di David Cronenberg

 

Il libro è ricchissimo. Ma come sempre in progetti come questi bisogna rinunciare a qualcosa, sfrondare. Cosa è rimasto fuori? Azzardo: La strada di Cormac McCarthy…

Bella domanda. Amo McCarthy, di cui ho letto tutto. La strada mi sembra il suo libro più debole e anche nel film di John Hillcoat, che pure apprezzo, la distopia è convenzionale. In verità c’è un titolo assente per il quale mi danno: Battle Royale di Kinji Fukasaku. L’ho avuto sulla punta della lingua per tutta la stesura e alla fine me ne sono scordato. È un grande film con una grande distopia. Ma questa cosa che dimentico un film fondamentale prima di tutto per me era già accaduta col polar, forse è un karma. Dopo aver pubblicato, ormai 20 anni fa, Cinema poliziesco francese, primo saggio italiano sul genere, mi chiama Aldo Tassone e mi dice: «ma manca Quai des Orfèvres!», riferendosi ovviamente al Clouzot del 1947 e non al Marchal del 2004. Ed è vero, mancava! Uno dei più stupefacenti polar di tutti i tempi me l’ero perso per strada, come oggi Battle Royale.

 

Bella e doverosa la sezione dedicata a Metallo urlante di Valerio Evangelisti. Rimane un mistero perché un’opera di questa importanza sia stata sostanzialmente ignorata. Che spiegazione ti dai? Solo pigrizia?

Non è pigrizia. È ignoranza. Per motivi che a me sono ben chiari, e che in parte, anche sulla scorta delle considerazioni di Valerio, riporto nel libro, la critica letteraria italiana è del tutto impreparata nei confronti della letteratura di genere, salvo quelle sporadiche eccezioni che non manco di citare.

 

 

Dammi due titoli e una motivazione: il più bel film e romanzo distopico.

Il film è Rollerball di Norman Jewison. Blade Runner è più mitico, più eclatante, lo considero uno dei cinque film di fantascienza più importanti di tutti i tempi (gli altri quattro sono Metropolis, 2001: Odissea nello spazio, Star Wars e Matrix) ma Rollerball è più sottile, più sfumato, un film intelligentissimo e visivamente clamoroso, credo sia anche sottovalutato. E poi c’è James Caan. Difficilissimo scegliere il romanzo. Ma dico Cronache del dopobomba di Philip K. Dick, al quale dedico un lungo paragrafo nel libro. Esprime un dolore che si percepisce a pelle, lo trovo stupendo, il suo più umanista, forse in definitiva l’unico perché parliamo di un patologico misantropo.

 

Guardiamo al futuro: si sta affermando il solarpunk che propone una visione ecologica, inclusiva, femminista, anti-razzista. Pensi che possa essere un approdo credibile del distopico?

Per ora il solarpunk è solo letterario, a meno che non si vogliano considerare i due Avatar di James Cameron come titoli già rappresentativi di una tendenza. È un filone che conosco ancora poco, spero non sia una cosa programmatica, voglio cercare di non avere pregiudizi ma secondo me il racconto di genere deve mantenere una certa “scorrettezza” di fondo. Speriamo.