Memento: la guerra è anche nostra. Intervista a Claudio Jampaglia, uno dei registi di Our War

Il documentario è di grande impatto, ma ancora più istruttiva risulta la voce di chi l’ha ideato e poi montato in quasi sei mesi di lavoro serrato. Our War, passato con certa risonanza Fuori Concorso al 73esimo Festival di Venezia, è una di quelle opere necessarie, perché aiutano a capire qualcosa che altrimenti appare profondamente lontano, sebbene ci coinvolga direttamente. Realizzato dal filmaker Bruno Chiaravalloti, dal giornalista Claudio Jampaglia e dalla reporter di guerra Benedetta Argentieri, il film focalizza uno sguardo scevro di giudizio su tre personaggi: un comunista italiano senza lavoro; un ex-marine statunitense “nato per combattere”; una guardia del corpo svedese di origine curda. Giovani assai diversi tra loro, accomunati soltanto dalla scelta di combattere l’ISIS in Siria, arruolandosi infine nelle YPG, le milizie curde che operano in Rojava, nel Nord del Paese. Le immagini di Karim, Joshua e Rafael nel teatro di guerra più intricato degli ultimi anni si incrociano con la loro quotidianità una volta rientrati nelle rispettive case. Abbiamo approfondito la materia con uno dei registi, nonché produttore dell’opera, Claudio Jampaglia.

 

Come nasce l’idea del film?

Da tempo io e Bruno Chiaravalloti intendevamo collaborare con Benedetta Argentieri, una free-lance che vive negli Stati Uniti, ma lavora prevalentemente in Siria e di cui abbiamo sempre apprezzato i reportages. Ci piacevano in particolare i servizi sulle combattenti curde, che sanno essere talvolta più efficaci e produttive dei colleghi maschi. Tra il moltissimo materiale proveniente dal fronte che abbiamo potuto visionare, ci ha tuttavia colpito la singolarità di quello girato dall’italiano Karim Franceschi: immagini che nascono certamente per essere la memoria di un’esperienza, ma anche come mezzo per costruire relazioni con compagni di avventura che hanno un’altra cultura e parlano un’altra lingua. Sono state lo spunto decisivo per affrontare la sfida cinematografica, che muove dal materiale girato in Siria dai protagonisti, con impianti non professionali (in larga misura dei telefonini), e poi da me e Bruno nei Paesi di appartenenza degli stessi.

 

Perché proprio questi tre personaggi tra tanti possibili?

In primo luogo perché sono combattenti formidabili, cosa che abbiamo verificato facendo riscontri incrociati. E poi per la storia e le motivazioni che ciascuno di essi ha alle spalle. Molto differenti in partenza, anche se poi convergono: Karim si batte per un un ordine nuovo di tipo socialista; Joshua contro quello che reputa il Male assoluto cercando, da ex militare professionista, il gruppo che meglio lotta sul campo; Rafael non ha motivazioni ideologiche precise, solo la convinzione di doversi impegnare personalmente, anche se poi riscopre le proprie radici.

 

Tre autori dichiaratamente pacifisti che raccontano la guerra…

Abbiamo cercato di farlo nella maniera più oggettiva possibile, senza esprimere giudizi sulle singole scelte intraprese dai protagonisti. Ma è indubbio che le posizioni in campo sono davvero molto diverse. L’esperienza diretta al fronte muta nei tre la percezione della guerra come l’avevano conosciuta dalle cronache giornalistiche e televisive.

 

A voi che ne avete indagato le dinamiche a freddo, è successo lo stesso?

Si è confermata una sensazione, che per Benedetta Argentieri era in realtà già una certezza in attesa di riscontri. Ovvero, che dentro quel ginepraio di finanziamenti occulti, fondamentalismo e incredibile moltiplicazione di gruppi combattenti che è il conflitto siriano – con tutti gli Stati che restano dietro le quinte (ad eccezione della Russia) – l’unica realtà che lotta con obbiettivi chiari e comprensibili sono proprio i curdi dell’YPG, sospinti da motivazioni democratiche, laiche, liberali. È la sensibilità che dovrebbe essere piu vicina all’idea occidentale, che dovrebbe dunque trovare nel mondo democratico un appoggio convinto; e invece da noi non se ne sa quasi nulla.