Nelle braccia del Cinema: storia di Peter Bogdanovich

Fade out: dissolvenza sull’elegia hollywoodiana, dissolvenza su Peter Bogdanovich, l’araldo dell’epoca d’oro di Hollywood, ma anche il suo prediletto figlio illegittimo, cresciuto all’ombra di cotanti padri e fatalmente portato a riassumere in sé, nella sua parabola umana e professionale, le stimmate ovviamente malinconiche del declino. Ora che non c’è più, non è difficile collocare Bogdanovich nel rapporto 1:1 con quel grande mito del grande cinema che più di tanti altri (o forse solo con più candore, intimità e amore) ha contribuito a cantare, per l’appunto, in scala reale: grandezza naturale, life-size, azzerando le distanze per toccarne dal vivo la mitologia. John Ford, Orson Welles, Howard Hawks, Fritz Lang, Alfred Hitchcock, Allan Dwan, Roger Corman…: interviste, saggi, documentari, prolungate frequentazioni esistenziali per quell’empireo di un’arte che aveva imparato a guardare dritto in faccia, con la spavalderia di un ragazzino che la sa lunga. Un’arte che ha saputo affabulare in presa diretta, coltivando un rapporto one to one con quella monumentale progenie di cineasti, che lui venerava tanto quanto noi. Ma che lui, a differenza della gran parte di noi, ha avuto la possibilità e l’ardire di avvicinare. C’è da dire che la narrazione di sé e la narrazione del Cinema sono andati di pari passo per Bogdanovich. Forse perché l’imprinting gli veniva dalla prassi giornalistica, quei servizi per Esquire che lo aiutavano a pagarsi la pigione a New York e che utilizzò come dorato grimaldello: fu così che riuscì a toccare i suoi miti.

 

…E tutti risero (1981)

 

Ma forse la dissolvenza incrociata tra se stesso e il sogno del cinema nasceva da un altro sogno, scovato dall’altra parte dell’oceano e incarnato dal gioco dei ragazzi parigini della nouvelle vague. Fu da loro che mutuò l’arditezza del dialogo permanente col mito (la forma dell’entretien, della conversazione, di cui divenne maestro incontrastato) e l’incoscienza del filmmaking, del fare film per stare nel Cinema, scavalcando la distanza dallo schermo che appartiene allo spettatore. A tendergli la mano, in questo senso, fu non a caso quell’Orson Welles in sedicesimo che risponde al nome di Roger Corman: fu lui a fiondarlo dalla poltrona di un’anteprima losangelina al delirio di un set. Nulla di nuovo per Corman, nulla di inaspettato per Bogdanovich, che a Los Angeles ci era andato proprio per infrangere la barriera dello schermo e fare quel cinema che tanto amava. L’incipit era in questo senso quasi didascalico, quel Target che dialogava concretamente, fisicamente, tanto con lo schermo cinematografico quando col mito (Boris Karloff) in esso riflesso.

 

The Other Side of the Wind (2018)

 

Di lì all’elegia della profonda America trovata nella nostalgia dell’Ultimo spettacolo il passo era breve e manteneva le dimensioni di una fusione del mito con la vita che sarà la matrice di tutta l’epopea bogdanovichiana. Lo aveva capito molto bene Orson Welles (che a casa di Bogdanovich ha anche trascorso un paio di anni, when in disgrace with fortune and men’s eyes…), affidandogli il ruolo del mediatore tra mito e realtà in qual magnifico oggetto (in)compiuto che è The Other Side of the Wind. Ed è forse proprio per questo suo dialogo inesausto con la mitologia di un esistere cinematografico che eccede le misure dell’esistere umano, che Peter Bogdanovich lascia nel giorno della sua terrena scomparsa il senso di una fatale incompiutezza, che collima con il fumus dell’inadeguatezza rispetto ai modelli che quell’eterno ragazzo alle porte di Hollywood deve aver nutrito: nella sua esistenza d’uomo avventurosa ed esuberante (amori, matrimoni e divorzi, fallimenti, drammi…) e anche nella sua esistenza d’artista sempre in bilico tra l’acclamazione e il perlopiù ingiustificato o eccessivo biasimo (basti pensare al linciaggio critico di Daisy Miller o di Vecchia America , che ne affossarono la carriera, o alla dicotomia dell’accoglienza tra L’ultimo spettacolo e il suo stupendo e ampiamente incompreso sequel Texasville). Sarà anche per questo che Bogdanovich muore senza esser stato il biografo di se stesso, proprio lui che è stato il biografo del Cinema… Nessuna autobiografia, al massimo un lungo libro intervista (Le cinéma comme élégie: Entretiens avec Peter Bogdanovich, Capricci 2018) in cui Jean-Baptiste Thoret inverte la prassi a lui abituale della conversazione e lo spinge nel quadro che per una vita ha dipinto: non più “rumore fuori scena” ma voce narrante di se stesso.

 

Texasville (1990)

 

Per noi Bogdanovich resta allora il magnifico testimone di un assoluto bisogno (il suo esattamente come il nostro) di adagiarsi tra le braccia del Cinema e di riprodurne la potenza poetica nella memoria che ci ha donato: ecco perché quella insistenza critica sulla traccia della nostalgia, che da più parti viene data come narrazione della sua filmografia. La sensazione è quella di aver perso il vero custode di una tradizione del Cinema che non è più dato vivere, e di averlo perso senza che abbia potuto davvero dare tutto ciò che aveva (come ha scritto Willian Friedkin ricordandolo), preso in una carriera multiforme e alterna che non ha saputo gestire come avrebbe voluto, forse per troppa prometeica vicinanza al tanto amato Olimpo. Resta una bibliografia fondamentale per chiunque voglia davvero capire e amare il cinema americano e una filmografia nemmeno troppo esigua, come qualcuno potrebbe credere. Bogdanovich è stato l’autore di film magnifici come L’ultimo spettacolo e Ma papà ti manda sola?, che preludono a quella Shangri-La produttiva offerta dalla Paramount a lui e a Coppola e Friedkin (l’esperienza fallita della Directors Company) da cui scaturirono Paper Moon e Daisy Miller. E poi Saint-Jack, … E tutti risero, Dietro la maschera, sino a Texasville che apre gli anni ’90, difficili per lui sotto tutti i profili, in cui non riesce più a trovare l’udienza produttiva e critica che vorrebbe e meriterebbe: Rumori fuori scena, Quella cosa chiamata amore, una sequela di lavori televisivi (chissà, magari da riscoprire), sino al ritorno a Venezia in eccellente forma con Tutto può accadere a Broadway. Il prestigio non gli è mai mancato, l’attenzione e la considerazione in parte sì. Capita, soprattutto ai chi cresce rimanendo eternamente figlio di un dio maggiore…