Ricerca e sperimentazione: gli anni Duemila di Franco Battiato

Il nuovo millennio di Franco Battiato in sette brani. Sette schede tratte da Unadimille. Mille canzoni dal 2000 a oggi (Arcana) di Vincenzo Rossini per seguire l’ultima evoluzione di un musicista che nel 1978 ha vinto il Premio Stockhausen e da allora non ha mai smesso di sorprendere con le canzoni, la musica sperimentale, il cinema, la pittura, i libri, il raffinato gusto timbrico, l’umorismo paradossale…

 

Verrà un altro temporale

La quiete dopo un addio di Franco Battiato
da FERRO BATTUTO, Columbia, 2001

Anche un tempo di gelo dell’anima è necessario all’esistenza. Saper osservare che, come le stagioni, “questa noia di vivere” lascerà spazio alla sua estate e poi ancora ritornerà, consente di attraversarlo cogliendone la ritrosa dolcezza: “Poche le cose che restano alla fine di un’estate / la quiete dei colori autunnali si rifletterà sulle strade e sugli umori / come il dolce malessere dopo un addio”. Tratta da FERRO BATTUTO, primo album di inediti dal fortunato GOMMALACCA, La quiete dopo un addio è un brano di estatica sospensione, articolato su un’unica modulazione armonica su due accordi maggiori intrecciati a linee vocali para-gregoriane. Battiato la reinciderà anche in InnERES AUGE. (testo: Manlio Sgalambro, musica: Franco Battiato / © Lottava/SM Publ.)

 

 

Tutto è vacuità

Io chi sono? di Franco Battiato
da IL VUOTO, Universal, 2007

Canzone interrogativa in senso assoluto, parte da una domanda rivolta a se stessi ma si espande alla totalità dei viventi: che cos’è reale e cosa è solo passeggero? E che ruolo abbiamo in questa gigantesca illusione? Sebbene la consueta sfiducia nei simili sia sempre la stessa (“Qui non si impara niente sempre gli stessi errori”), Battiato sembra cercare di ribaltare il punto di vista, mettendo in luce come il marcio e il sublime, il bene e il male, siano parte dello stesso vivere: “La luce si unisce allo spazio in una cosa sola”. IL VUOTO è «il più pieno tra i dischi vuoti di Battiato, quelli degli anni zero, il più arrendevole e spoglio (…) Io chi sono? ha l’unico vero momento di luce del disco, la luce raccontata nel suo congiungersi nello spazio, un momento veloce ma determinante» (Zingales). Nel contesto di un album che forse è il più gelido dell’intera carriera di Battiato, perfettamente sintetizzato dall’astrazione digitale della sua copertina, come dai suoni pervasi di una sinteticità afasica, quasi spurgata di ogni potenziale sollievo emotivo, Io chi sono? è uno spiraglio, un moto che si scolla dalla livida monotonia della ritmica per tentare una corsa verso l’identità. E verso la libertà. È anche intimamente connessa alla successiva Stati di gioia, un denudarsi per compiere il salto stellare nel vuoto eterno: “Riti di purificazione dentro stati di gioia / senza luce nell’oscurità”. (testo: Franco Battiato, Manlio Sgalambro, musica: F. Battiato / ©Lottava/Universal)

 

 

E chissà dove sarai amico

Del suo veloce volo di Antony / Franco Battiato
da FLEURS 2, Mercury, 2008
(versione live in DEL SUOVELOCE VOLO, Mercury/Universal, 2015)

Di estrazione newyorkese ma nascita britannica, dal 2015 rinata nell’identità femminile Anohni, Antony Hegarty è una delle voci più vicine al paradiso che gli anni Duemila abbiano rivelato al mondo. Un paradiso fatto di dropouts, identità di confine e personaggi tormentati che sembrano addolcirsi le ferite dal dolore attraverso le frequenze incredibili della sua voce, nelle intime stanze soul evocate dalla formazione The Johnsons. Antony incrocia la strada della canzone italiana quando nel 2008 Franco Battiato lo coinvolge in una emozionante rilettura di Frankenstein, dall’album capolavoro hOPEThERE’S SOMEOnE (2005), da includere in FLEURS 2. La rivisitazione è libera: Battiato conserva solo parte della matrice armonica del brano e vi innesta il suo canto tenue come una morbida carezza, mentre il testo trasforma l’originale autoritratto di un’identità in transizione in una lettera a un amico d’infanzia strappato alla vita: “E così oggi, dalla mia memoria / scelgo il meglio della vita / e del suo veloce volo / che finisce come sempre accade / troppo presto”. È una scelta coerente con la personale ricerca sul passato che Battiato affida alla sua trilogia di album cover, tant’è che la voce di Antony sul finale, in italiano, suona come l’ologramma di una vita che riappare dalla memoria, dando i brividi. Nel 2013 i due colossi si incontreranno sul palco dell’Arena di Verona per un singolare concerto a due (più Alice), immortalato in un album omonimo. Un evento. (di Antony Hegarty)

 

 

Come puoi tenere nascosto un amore

Tutto l’universo obbedisce all’amore
di Franco Battiato con Carmen Consoli, da FLEURS 2, Mercury, 2008

L’unico inedito di FLEURS 2, terzo e ultimo capitolo della trilogia, è un nuovo capitolo nell’indagine di Battiato sulla contraddizione tra forze: da un lato l’ambizione di un amore pudico e fragile, da tenere nascosto al mondo al suo fracasso (“Bisogna muoversi / come ospiti pieni di premure / con delicata attenzione”), dall’altro c’è la natura stessa dell’amore, porta verso l’infinito, impossibile da limitare: dal momento che l’intero universo vi obbedisce, perché ostinarsi a incatenarlo? Un ritmo disidratato sorregge armonie da beat italiano anni Sessanta, amplificati dalla voce di Carmen Consoli, che entra spesso in una suggestiva consonanza con il timbro del Maestro. (testo: Manlio Sgalambro, musica: Franco Battiato / © Lottava/Universal)

 

La giustizia non è altro che una pubblica merce

Inneres auge di Franco Battiato
da InnERES AUGE – IL TUTTO È PIÙ DELLA SOMMA DELLE SUE PARTI, Universal, 2009

C’è stata soltanto un’altra occasione in cui Battiato si è profuso in un’invettiva altrettanto diretta e feroce contro la decadenza e il malcostume della società italiana, e cioè con Povera patria, trasformata dal senso comune nel manifesto di un epico disgusto per un tempo vile in cui, tuttavia, era possibile ancora una flebile speranza. Era il 1991 e Tangentopoli, soltanto pochi mesi dopo, avrebbe cambiato per sempre la percezione delle persone verso la cosa pubblica, scoprendo il velo sulla dimensione strutturale che la corruzione ha sempre avuto in Italia. 18 anni dopo gli italiani non sono ancora stati travolti dal nuovo scossone morale delle “cene eleganti” e dei “bunga bunga”, simbolica chiusura del decennio berlusconiano, ma l’intreccio tra mercificazione del sesso e del corpo femminile è ormai una trama talmente abituale da essere diventata regola nella percezione comune. È qui che Battiato tira fuori un’altra profezia: Inneres auge è la nuova invettiva del Maestro per questo tempo disperato, priva dello slancio lirico di Povera patria ma soprattutto priva di speranza, almeno intesa in un senso collettivo. Spedita e ritmica, a metà tra una fuga e una traccia minimal-techno, Inneres auge si apre con tre versi folgoranti, ripresi dall’opera sperimentale CAMPI MAGnETICI (2000, la traccia è L’ignoto), capaci di cogliere la ferocia, il viscidume e l’aggressività di una massa di inetti arrapati per il potere, come un’orda barbarica e ferina, e che impostano il registro della canzone: “Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando / o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti / precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina”. Un taglio di montaggio netto e geniale e, dalla similitudine, Battiato passa al documento concreto, un ipotetico dialogo medio tra chi difende comunque le porcate del re e chi inorridisce per la stessa mancanza di orrore: “Uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello Stato? / Non ci siamo capiti / e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?”. Non c’è elevazione, non c’è ellissi: Battiato usa il termine “rincoglioniti” caricando il registro di una trivialità che è perfettamente emblematica di quel che sente: “rincoglionito” come “bavoso”, “rintontito”, “imbecille”, un niente che dovrebbe fare gli interessi di tutti e che invece pensa ai suoi: “Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro?”. E ancora, per precisare il fulcro del problema: “Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori / se non avessero moneta sonante / da gettare come ami fra la gente?”. Spietato, implacabile, schifato: il Battiato di Inneres auge è Gesù nel tempio, indignato e inorridito. Tuttavia dove in Povera patria lo sfogo culminava in un’ipotesi di cambiamento in fondo ancora possibile, qui la visione della fine è compensata e contrapposta a un moto tutto interiore, una riflessione sulle due linee perpendicolari della materia e dello spirito che sembra suggerire uno sguardo che è ormai al di sopra del tutto, pronto a rielaborare e gestire l’inferno attraverso la cultura dello spirito, la meditazione e, appunto, la visione interiore (cioè “das innere auge”). Battiato chiude il brano su un momento di distacco dalla grettezza della materia civile che non è un chiudere gli occhi per non vedere ma, ancora, è un gesto civile, come sottintendendo che non esiste altra cura alla decadenza se non la coltivazione della bellezza senza tempo, lo studio, la lettura: “Mi basta una sonata di Corelli, perché mi meravigli del creato!”. (testo: Manlio Sgalambro, musica: Franco Battiato / © L’Ottava/Universal)

 

Quando eravamo collegati, perfettamente

Un irresistibile richiamo di Franco Battiato
da APRITI SESAMO, Universal, 2012

Come il titolo evoca, APRITI SESAMO è un album di formule che spalancanoporte verso il passato, nel tentativo di compensare (e in parte capire) l’orrore del presente (“Vorrei tornare indietro / Per rivedere il passato / Per comprendere meglio / Quello che abbiamo perduto”, Passacaglia). Una dinamica comune a tutta la produzione recente, databile persino a FLEURS (1999), ma che qui sembra diventare dominante, raffreddata da un’amarezza che sembra ormai strutturale e che si rispecchia in una musicalità sempre più astratta e rarefatta, solcata da lampi di tenerezza soltanto se rivolta al tempo di una rigorosa ricerca spirituale. Un irresistibile richiamo unisce citazioni di Santa Teresa d’Avila e meditazioni personali su un tempo comune in cui le entità erano collegate “al luogo e alle persone che avevamo scelto / prima di nascere”. Una condizione pre-esistenza (forse i Giardini della preeternità già cantati?) di fusione perfetta tra le energie del corpo e i moti dell’animo. A riattivarla nel ricordo è proprio la musica, da sempre in Battiato il linguaggio prediletto per creare lo spazio della riflessione, che un ritornello aperto e rigoglioso suggella come conquista di gioia pura: “Un suono di campane / lontano, irresistibile, il richiamo / che invita alla preghiera del tramonto”. La canzone più dolce in un album austero, di glaciale bellezza, che è ancora l’ultimo vero e proprio lavoro di inediti di Battiato. (testo: Franco Battiato, Manlio Sgalambro, musica: F. Battiato / © Lottava/Universal)

 

 

È bello rivederti, davvero

Le nostre anime di Franco Battiato
da ANTHOLOGY – LE NOSTRE ANIME, Universal, 2015

La più ricorrente ipotesi su Le nostre anime è che sia un brano dedicato a Manlio Sgalambro, “avvocato del diavolo” e autore dei testi delle canzoni di Battiato per oltre 20 anni, scomparso nel 2014. Che sia ipotesi motivata o pura suggestione, è forse il brano più dolce che il Maestro abbia pubblicato dopo il Duemila (e dà il nome anche alla prima raccolta curata dall’autore). Vi si racconta l’incontro tra due anime che si sono perse di vista e che si ritrovano dopo anni, scoprendo di capirsi ancora, intenerite dalla pura gioia per l’evento (il verso “scendono inaspettatamente lacrime / come pioggia spontanee” è come spezzato in un reale moto di commozione, con la melodia che pare aprire un varco). Ripercorse insieme le conquiste maturate dall’esistenza dopo la separazione, come imparare a “contemplare la natura e i desideri”, i protagonisti dedicano una lode al cuore attraversato da questa emozione, fino a che il tramonto suggerisce che è tempo di riprendere ciascuno il suo cammino, “verso la stessa meta”. La sublime bellezza del brano è nel modo in cui Battiato trasfigura questo legame, sottraendolo alle classificazioni terrene e avvicinandolo a un’idea di amore assoluto, che ingloba conoscenza della vita, discernimento e la stessa distanza come passaggio maieutico. Il finale nebulizza la sequenza superando l’immanente, verso una visione totale, immersa in una speranza adulta: “Le nostre anime / cercano altri corpi / in altri mondi / dove non c’è dolore / ma solamente / pace e amore”. (di Franco Battiato / © L’Ottava)