Ricordando Kira Muratova e il suo cinema della nevrosi sociale

Long Farewells (1971)

Una delle figure di riferimento del cinema post sovietico. Kira Muratova, scomparsa venerdì scorso all’età di ottantaquattro anni (era nata il 5 novembre 1934 a Soroki, nell’attuale Moldavia), non ha mai smesso di sfidare le convenzioni per imporre il suo sguardo, neppure quando, con l’avvio della perestrojka, i suoi film hanno potuto circolare più liberamente nei paesi dell’Est, senza gli ostacoli della censura che nel periodo sovietico ne avevano a vario modo bloccato la diffusione. Il primo film girato interamente da sola, infatti, Brevi incontri (1968), viene subito ritirato dagli schermi, forse perché, nello stile, tradisce un’evidente adesione ai modi e alle forme del cinema contemporaneo euopeo. Storia di un triangolo amoroso, dove la decostruzione della linearità narrativa rappresenta un elemento di modernità. Ma la trasgressione alle regole formali sovietiche fa infuriare le autorità e la stessa sorte tocca ai titoli successivi, Lunghi addii (1971) e Scoprendo il vasto mondo (1978), il primo storia di un difficile rapporto tra una madre e un figlio, che dà la caccia ai lupi fino a condividerne la vita e che esce solo sedici anni dopo, vincendo poi il premio Fipresci al Festival di Locarno. Il secondo, invece, è un  esemplare e delicato racconto, ben lontano dal realismo propagandistico che domina l’industria cinematografica sovietica degli anni Settanta.

Tre piccoli omicidi (1997)

“Fin dai primi frame entriamo in un mondo strano, desolante e morboso – dice Muratova stessa, a proposito di Lunghi addii – Una madre non capisce suo figlio, e anche tutti gli altri non riescono a capirsi l’un l’altro. Non c’è una cornice luminosa, nessuna faccia piacevole. Invece di parlare, le persone borbottano. Gli occhi di tutti trasmettono il vuoto e la tristezza. Le strade sono grigie e plumbee, così come le anime delle persone. Si sente una brezza gelida da questa triste, gioiosa atmosfera di un mondo tranquillo abitato da tutte queste persone vuote e indifferenti” ed è immediatamente chiaro il dissenso che questo cinema scatena attorno a sè. Naturalmente disallineato dai canoni estetici del realismo socialista, il cinema di Kira Muratova si sofferma soprattutto sulle figure femminili, che descrive con partecipazione e semplicità, e sulla vita randagia dei bambini poveri e soli. “Sono la prima a definirmi provinciale. Cosa posso filmare io, se no drammi provinciali? Io vivo in provincia e, che mi piaccia o no, respiro quest’aria e cerco di raccogliere alcuni momenti interessanti” e così, in  Fra le pietre grigie (1983) racconta la storia di un bambino di sei anni trascurato dal padre, e della sua amicizia con i coetanei che vivono randagi nella comunità povera della città. Manipolato dalla censura, rimontato e tagliato, non è mai stato riconosciuto dalla regista ed esce firmato con lo pseudonimo di Ivan Sidorov. Le cose non cambiano per lei neppure con il cambiamento ufficiale e Muratova, che come ha spesso dichiarato, si concentrava soprattutto sul montaggio, si fa veggente anche nel suo primo film del dopo liberalizzazione: Sindrome astenica (1989), diviso in due parti dedicate rispettivamente alla disperazione di una donna subito dopo la morte del marito, e  alla disillusione di un uomo che ha letteralmente perso interesse per la vita. La quotidianità si mescola ad elementi surreali e il declino dell’Unione Sovietica viene rappresentato con tanta incisività da diventare l’unico film bandito durante l’era Gorbachev, ma anche un chiaro manifesto della sua intera visione. Con i film successivi la regista, che ha ambientato quasi tutte le sue storie ad Odessa, compie un’inattesa ma sempre coerente incursione nel minimalismo espressivo. si pensi a Piccoli entusiasmi (1994), Tre piccoli omicidi (1997),  Chechov’s Motives (2002) e L’accordatore (2004). Il suo cinema si fa sempre più raffinato, la recitazione sempre più teatralmente curata, le scenografie capaci di saturare lo sguardo. Sono film densi e lievi al tempo stesso, mai riconciliati e mai paghi di cercare, attraverso la lente deformante del cinema,  il senso dell’arte e della vita stessa. “Se fossi un animale sarei un cane. Il cane è molto leale e molto felice di esserlo. È una creatura semplice, intelligente. Vuole essere buono, e gli piace esserlo. E se non riesce a essere bravo, diventa triste. Questo è il modo in cui penso a me stessa”.

Eternal Homecoming (2012)