Roberto Maggi: in Suites di fine anno risuonano sfumature intime e trame musicali…

Roberto Maggi

Con Suites di fine anno (Florestano Edizioni, pag.132, euro 10) Roberto Maggi ci propone un protagonista che nel suo agire/pensare crea una sorta di campo magnetico che attrae (auto)analisi, insofferenza, incomprensione riguardo alle leggi perverse che regolano il complesso della vita sociale. Un Io che nel suo isolamento al tempo stesso procurato e coatto, rappresenta anche l’artista che tenta di definire e sbloccare la propria funzione. Maggi è uno scrittore per il quale il senso della forma artistica è sostanzialmente musicale; i suoi racconti sono sostenuti e innervati da un ritmo inarrestabile e cangiante che infonde il mood e l’energia della musica, in una singolare sintesi di lingua colta e lingua parlata, stile alto e stile colloquiale. Come afferma Sabino Caronia nell’introduzione:”È un viaggio nell’interiorità, nei fantasmi della mente, quello a cui si assiste qui: un costante confronto con le fragilità del proprio essere, assiduamente manifestato da soliloqui dissonanti e nobilitato da preziosi slanci poetici”. In un’atmosfera venata di malinconia, senza contorni, si indagano i sentimenti elementari ed essenziali, gli eventi di ogni quotidiano (la festa di capodanno…). Il tutto scorre in una realtà che sentiamo vicina, ma senza tempo, percepita in una smagata e confusa lontananza. Qui la concretezza, che pure esiste, è quasi un assurdo, diventa essa stessa garanzia di anonimato. Pochi sussulti, ma un lento esistere di una condizione senza prima né dopo: un’impressione che trascolora in un’altra impressione, un abbandono musicale (e lirico) indeterminato grazie al quale Maggi guarda al mondo di sempre con una lente diversa, nel tentativo di cogliervi un barlume di verità non effimera.

 

Una raccolta di racconti come flusso di coscienza che vuol suggerire una traiettoria esistenzial-musicale?

Indubbiamente l’aspetto esistenziale della narrazione è centrale: al di là delle situazioni descritte, più o meno bizzarre e in alcuni casi divertenti, sono i dubbi sulla vita, le incertezze e le riflessioni personali a giocare un ruolo determinante, attraverso un percorso introspettivo/psicologico che porta l’io interiore a narrarsi in prima persona. Senza questa visione che giustamente può essere letta come lo svolgersi a tratti impetuoso di un flusso di coscienza, l’interpretazione e il senso dell’intera struttura narrativa verrebbe meno. E, secondo la mia personale visione, questa nudità svelata dei sentimenti interiori non può essere disgiunta dall’esperienza musicale, allorquando gli stati d’animo e le sfumature intime si sposano -o per meglio dire “risuonano”- con le trame musicali che accompagnano le nostre esperienze. È come se le emozioni e le sensazioni legate a determinati momenti o episodi, più o meno significativi, della nostra storia, avessero una personale ed esclusiva colonna sonora. Quindi il connubio tra l’esistenziale e il musicale tenta di dipingere un affresco coerente, in cui i due elementi si cercano, si inseguono, o vanno di pari passo: ma non potrebbero esistere l’uno senza l’altro.

 

Alla fine ci si potrebbe chiedere, estremizzando un po’, dove sono i corpi, la carne, il sangue…

Sono presenti, e non sono del tutto secondari: in ogni episodio le sensazioni legate alla fisicità erompono in determinati momenti dello svolgimento. Possono essere le percezioni del corpo che si rapporta con la natura, o, in modo ancor più lampante, la carnalità sprigionata dagli incontri uomo/donna che caratterizzano i racconti. La fisicità dei corpi assume in questi casi tinte fortemente sensuali, come è inevitabile nell’approccio trascinante di due o più entità che entrano in collisione. È l’aspetto primario e ineluttabile dell’amore, che dell’impeto erotico non può fare a meno e che, quasi caparbiamente, si succede in forma ciclica. Soprattutto nel Terzo Movimento le descrizioni legate alla corporeità femminile ricorrono in una serie di esperienze successive fino a sfociare in un climax di fusione con essa. Se, come detto esplicitamente nell’introduzione al libro di Sabino Caronia, in questi racconti “si assiste a un viaggio nei fantasmi della mente”, nondimeno i corpi godono e si dimenano, urlano e ballano, esaltati come in una giostra di vorticante ebbrezza: e di ebbrezza reale si tratta, più che di fantasmagorica estasi.

 

 Ammirevole il lavoro sul ritmo differente dei racconti. Come ci hai lavorato e dove volevi portare il lettore?

È stato un lavoro realizzato a step successivi. Partendo dall’idea di base di accostare la narrazione ai movimenti di una composizione musicale, la formula di differenziare la ritmica dei singoli racconti si è venuta perfezionando andando avanti con la scrittura, propendendo per un incremento di ritmo da un racconto al successivo, in modo da realizzare un crescendo. In realtà questa cifra stilistica si riflette anche all’interno di ogni singolo movimento: difatti per ognuno di essi vale lo schema dell’alternanza ritmica, rappresentata da un incedere più pacato e ordinato nella fase iniziale per poi accelerare e scompigliarsi nel corso della narrazione. Così come i finali tornano a riacquistare la compostezza e la morbidezza iniziale, in modo concorde a quanto avviene nella ripresa di un tema musicale. In sintesi, ho tentato di realizzare un crescendo narrativo a più livelli, soprattutto badando a che questo rispecchiasse la traiettoria specifica della narrazione. Avvalendomi del fraseggio musicale e dell’uso di una punteggiatura non convenzionale, ho voluto realizzare un “racconto” che portasse chi legge a seguire quelle vicende in prima persona, con gli occhi, la mente e la passionalità di chi le vive.

 

Vedere il mondo con la voce e la musica di Robert Wyatt e di tanti altri musicisti cosa aggiunge? Fondere prosa e musica è un esercizio ad alto rischio…

Aggiunge moltissimo. Ascoltare un capolavoro come Rock Bottom di Robert Wyatt significa intraprendere un viaggio, oscuro e onirico, nei recessi della psiche, come nell’esplorazione immaginaria di un fondale oceanico. Il parallelismo è totale: nel percorso tracciato dal primo all’ultimo brano del disco, il linguaggio sonoro e verbale si frammenta, si destruttura, diventa liquido. E in buona parte, con le dovute differenze, è ciò che avviene nelle mie Suites. Le parole perdono via via lo schema lessicale, fluiscono, diventano pensiero diretto. Oppure si aprono a scenari poetici, nella corrispondenza suggerita da brani musicali altrettanto lirici, come nel caso di Starless dei King Crimson o di Silver Moon di David Sylvian. Allora l’osservazione introspettiva si amplifica come in un processo di induzione, stimolando l’attività creativa, in una sorta di simbiosi emotiva. Questi passaggi poetici sono quindi giustificati dal rapporto familiare che la poesia ha con la musica. La stessa cosa non si può dire, in linea generale, con la prosa; il romanziere ha di solito poco affinità con un linguaggio prettamente musicale. Per quanto mi riguarda però, vuoi perché anche poeta, vuoi perché mi risulta naturale, i due aspetti sono inscindibili: l’azione di tramutare in parole il mio sentire, anche in prosa, non può fare a meno, citando un passaggio del testo, della “connessione empatica con la musica”. Mi rendo conto di come questa modalità insolita possa spiazzare chi legge, ma io mi auguro piuttosto che lo possa gradevolmente sorprendere.

 

Come hai scelto le suggestioni musicali da inserire in un determinato contesto?

Viene da chiedersi piuttosto se siano state esse a scegliere me. Non necessariamente lo scrittore opera una scelta a tavolino, può succedere che il suggerimento avvenga in estemporanea durante la scrittura, almeno in alcuni casi. Sono le parole scritte a indurre la corrispondenza giusta, soprattutto quando descrivono degli stati d’animo. Allora la musica richiamata magicamente insorge. Chiaramente non sempre è stato così: in alcuni casi è un debito che ho nei confronti di artisti che ho amato e ascoltato fino all’esasperazione, scavando i solchi dei vinili. Allora in questi casi la scelta è stata obbligata, in quanto non si poteva fare a meno di optare per quei brani che in anni di ascolto hanno suscitato in me una determinata reazione emotiva, quali simboli analogici collegati a certe tematiche. È il caso, per esempio, di Lost dei Van Der Graaf Generator, le cui caratteristiche musicali e soprattutto testuali ho sempre associato alle fratture inferte all’anima da un abbandono, da una perdita d’amore. In altri casi invece, laddove la suggestione non è avvenuta in modo spontaneo, ho dovuto operare una scelta tra le molte opzioni possibili, e non è stato facile. Avrei voluto omaggiare tanti altri musicisti, ma evidentemente ciò non è stato possibile, poiché la lista rischiava di essere infinita.

Van Der Graaf Generator

 

 Suites di fine anno è un titolo che può essere letto in modi differenti, come nasce?

È un titolo volutamente ambivalente. Da una parte c’è l’accezione più evidente, ossia quella relativa al contesto musicale, sia riguardo ai brani che fanno da sottofondo alla narrazione, sia al già citato accoppiamento tra svolgimento descrittivo e composizione musicale, che intende portare chi legge a esplorare un mondo di sensazioni anche attraverso i suoni. Dall’altra parte c’è l’accezione, per certi versi semanticamente non troppo corretta, che fa riferimento alle Suites come a dei luoghi in cui le vicende si svolgono e che, nelle mie intenzioni, volevano suggerire anche una sorta di ambientazione enigmatica. La stessa foto di copertina, che ho realizzato proprio a questo scopo, vuole rendere l’idea di sospensione, di mistero, al cospetto di un luogo che ci attende. Tra l’altro, tornando alla prima lettura, il titolo calzava benissimo non solo in rapporto alla musica classica, da cui la Suite trae origine, ma anche alla musica rock degli anni ‘60/’70, per lo più dell’area progressive, che quel termine ha riportato in auge, riutilizzandolo per descrivere la lunghezza e la complessità delle opere di quell’epoca. Quindi se le mie Suites si svolgono secondo le voci e i tempi mutuati dalla musica classica, allo stesso tempo richiamano quelle leggendarie dei grandi virtuosi del rock, che hanno lasciato un segno indelebile nella mia crescita musicale.

 

Quando scrivi ascolti musica? Quanto ti influenza la musica che la tua vita attraversa?

Non necessariamente, ma succede spesso che le due cose avvengano in modo contestuale. Ed è naturale che le suggestioni dell’ascolto possano influenzare l’attività creativa della scrittura, o nell’immediato o in seguito a una successiva rielaborazione. Sia come sia, è indubbio che per me la musica rappresenti un elemento vitale e irrinunciabile. È stata una preziosa compagna di viaggio sin dal momento in cui ha fatto irruzione nella mia vita, sempre al mio fianco lungo le sue fasi altalenanti: recando conforto nei periodi oscuri oppure amplificandone la vitalità nei momenti di gioia. Una sorta di rifugio dove trovare riparo e accoglienza. Più di una volta, parlando con degli amici sul ruolo che essa ha avuto nelle nostre vite, abbiamo avuto modo di dire in tono scherzoso che senza di lei saremmo morti, quasi facendola assurgere a ruolo di salvatrice. Da ciò si può con facilità dedurre quanto la musica sia parte integrante della mia esistenza, e l‘influenza che essa ha sul mio modo d’essere, anche semplicemente facendo da discriminante sulle scelte sociali, di amicizia, d’amore. Una continua fonte di scoperta e di stimolo. Per non parlare del potere che esercita sulla scrittura: dalla poesia alla prosa è per me proibitivo lavorare a un testo senza che essa diriga la partitura delle parole e ne esalti per prima cosa il suono. Come scriveva Paul Verlaine in una sua famosissima lirica: “Musica, sopra ogni cosa!”.

 

Con quali scrittori hai un debito? Chi ti ha influenzato?

Anche qui la lista sarebbe assai lunga, però possiamo tracciare delle vie principali. All’interno del libro vengono citati vari autori che in un modo o nell’altro hanno lasciato il segno: Dostoevskij, Kafka, Gogol, Rimbaud, Lorca, Salinas. Ma ce ne sono molti altri altrettanto importanti. Diciamo che in linea generale la letteratura russa classica, soprattutto dell’ottocento, mi ha fortemente influenzato, forse anche perché è stata la prima con cui mi sono confrontato. Grandi geni che hanno creato capolavori assoluti. Credo sia facilmente intuibile, leggendo il libro, notare come l’aspetto introspettivo e di scavo interiore sia obiettivamente riconducibile a questi grandi del passato, soprattutto il Dostojevskij di Memorie del sottosuolo. Discorso a parte meritano invece i poeti chiamati in causa che, soprattutto nel caso di Rimbaud, hanno rappresentato una sorta di ossessione giovanile, e di cui non si potevano non menzionare dei passaggi memorabili. Anche per evitare un uso eccessivo delle citazioni che rischiavano di diventare degli elementi di sfoggio e non, come dovrebbero, degli atti di riconoscenza, ho lasciato in disparte altri grandi scrittori per cui nutro ammirazione sconfinata: uno su tutti, Fernando Pessoa, il cui ann (ma anche le sue meravigliose poesie) mi hanno attanagliato per anni. Oltre a lui, andrebbero ricordati tanti altri colossi, ma si tratta di un’impresa quasi impossibile: rischierei di fare solo un catalogo incoerente e didascalico di nomi. Spero che i vari Borges, Marquez, Orwell, Kerouac, Proust e tanti altri ancora, non se ne abbiano a male.