Sempre e solo cinema: ricordando Nico Cirasola

Anche prima che ci lasciasse, pochi giorni fa, con la stessa fulminea sorpresa con cui lo si vedeva apparire qua e là (Da do da…) dove c’era cinema, Nico Cirasola era una figura veramente dotata di un’aura mitica tutta particolare. Qualcosa che svaporava dal basso di quella prassi operativa continua, imperterrita dinnanzi ai limiti del reale, da cui era animato senza sosta, con la frenesia di un carpe diem del fare (cinema, naturalmente: sempre e solo cinema!) che però non disconosceva la dolce lentezza del tempo, propria del nostro meridione, di cui era intriso. Detto senza retorica, ma come un dato di fatto, quella di Nico Cirasola è una vera perdita, perché lascia un vuoto molto concreto laddove prima c’era il pieno di una sacca resistente di cinefilia proletaria e antintellettuale, di cui il cinema italiano sente la mancanza ormai da decenni. Il suo era un fare (non solo film) che operava tra ingenuità e scaltrezza, tra la sincerità dell’ispirazione e la furbizia (leggi ingegnosità, da qualcuno distorta in “arte di arrangiarsi”…) del produrre senso nella realtà. Che poi era sempre un senso svagato, distante dalle quadrature concettuali e dal volume dell’impegno politico propriamente detto (Citto Maselli stava da un’altra parte, per intenderci). Impegno politico e militanza che pure Nico Cirasola aveva conosciuto sin dalla più giovane età e che manteneva ben attivo dentro e fuori di sé, anche nel distacco un po’ disilluso nell’ultimo periodo. Lo vedevi conquistare dalla platea i tavoli della convegnistica più istituzionale, su cui si imbandivano le leggi, le progettazioni e le contrattazioni del fare (cinema, naturalmente: ancora e sempre cinema…) e sparigliare con un sapere anche molto puntuale tutte le ipocrisie del dire dell’industria culturale. Senza però incorrere mai in accensioni polemiche sterili né in litigiosità da capponi manzoniani, ma giocando con quell’ironia e con quella straordinaria verve comica che rendeva una vera e propria esperienza affabulatoria ogni chiacchierata, ogni cena con lui…

 

Focaccia Blues

Le testimonianze e i ricordi apparsi in questi giorni sulla stampa e sui social raccontano di una generosità vera e sincera che si riversava soprattutto sui giovani che, come lui, sognavano il cinema e lo inseguivano, per i quali si faceva dispensatore di una sapienza fatta di trucchi, di modalità di accesso a un sistema che tende a chiudere le porte in faccia, come lui ben sapeva. Cinefilo del fare e del ricordare, Nico Cirasola era un vero e proprio homme cinéma: collezionista, organizzatore, proiezionista, operatore, regista, attore, narratore… Un grande affabulatore di se stesso. E del fare cinema: senza mezzi e senza mezzi termini… Senza compromessi nel seguire la sua ispirazione, eppure sempre in bilico sui compromessi produttivi che doveva cavalcare con impareggiabile ingegnosità, soprattutto nella prima parte della sua carriera. Quella in cui, da puro e semplice filmmaker, s’inventava una realtà mitopoietica che univa letteralmente l’alto e il basso, il passato e il presente, il sogno e il reale, la fiaba e la cronaca. Il poeta sognatore di Odore di pioggia (1989), suo primo film scritto assieme allo scrittore operaio Tommaso Di Ciaula (il cui Tuta blu, caso letterario inviso a Lama perché “contrario al sindacato”…, Cirasola aveva girato in Super8, senza mai riuscire a finirlo), è l’emblema dell’antieroe che germoglia nella solarità astratta di un sud dello spirito.

 

Rudy Valentino

 

Gli antichi dei dell’Olimpo che scendono a Bari e s’innamorano della Statua della Libertà newyorchese in Da do da (1994), film magnifico e stralunato che, ovviamente rifiutato dalla paludata Mostra del Cinema di Venezia di Rondi e Pontecorvo, Cirasola portò nonostante tutto al Lido inventandosi, con altri autori scartati come Zangardi ed Eronico, un autarchico “Salon des refusés” con proiezioni a mezzanotte (“In un festival con storie di stupri e tg trasformati in film, perché non dovrebbe esserci spazio per la mia storia d’amore tra Zeus e la statua della libertà?”…). L’inverso emigrare di Albania blues (2000), che smaterializzava la cronaca frontaliera adriatica delle varie Vlora approdanti in Puglia nella fuga albanese di un antennista in cerca di pace. L’epica della borghesia mercantile levantina che in Bell’epokèr (2005) rivive i sogni operistici da belle époque barese, andati in fumo nel rogo del Petruzzelli, in una rievocazione un po’ ironica e un po’ trasognata. E poi l’epica glocal del documentario Focaccia Blues (2009), che ricostruisce la vittoria di un piccolo panificio barese sul McDonald’s di quartiere, infine costretto a chiudere per carenza di profitti; e in Rudy Valentino (2017) la ricostruzione di un possibile ritorno nella natia Castellaneta del divo Rodolfo: che restano i suoi due film produttivamente più strutturati, in cui il suo estro bizzarro cova sotto una forma più ordinata e regolare e si fa rimpiangere un po’.