Stefano Cordella (Òyes): Io non sono un gabbiano e la mancanza di spinta vitale

Una giovane compagnia, nata nel 2010 dall’incontro di nove ex-allievi dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano: Umberto Terruso, Stefano Cordella, Fabio Zulli, Dario Sansalone, Dario Merlini, Daniele Crasti, Francesco Meola, Andrea Lapi e Max Mastroeni. Con il tempo sono rimasti in sette con idee estremamente chiare sulla loro poetica (come dichiarano sul sito della compagnia): «Cerchiamo di fare un teatro per come lo vorremmo vedere, portando avanti una realtà in cui ci identifichiamo, che riconosciamo. Il desiderio che ci spinge è quello di fare teatro per il pubblico, per la gente, con strumenti chiari, concreti e semplici raccontando storie che diano spunti di riflessione a chi le ascolta». Dopo Effetto Lucifero (con cui vincono il premio Giovani Realtà del Teatro 2010), Assenti per sempreLuminescienz – La settaAnton – Scherzo in un attoVa tutto bene Vania (premio Giovani Realtà del Teatro 2015), continuano il loro percorso all’interno dell’universo cechoviano con Io non sono un gabbiano, in sala al Teatro Menotti di Milano dal 15 al 18 febbraio. Lo spettacolo, interpretato da Francesco Meola, Camilla Pistorello, Umberto Terruso, Dario Merlini, Dario Sansalone, Camilla Violante Scheller, Daniele Crasti, Fabio Zulli, è diretto da Stefano Cordella. Lo abbiamo incontrato.

È il terzo spettacolo che dedicate a Čechov, un grande amore il vostro…

Čechov è nei nostri pensieri da un po’ di tempo. Tutto nasce da un seminario che ho frequentato sette anni fa a Prima del teatro, corso estivo per giovani attori neodiplomati. Con registi inglesi e francesi delle più importanti accademie europee abbiamo trattato proprio Zio Vanja e Il gabbiano. Mi si è aperto un mondo nuovo rispetto all’immaginario che avevo su Čechov, molto più vivo, contemporaneo. Ne ho parlato con i ragazzi e abbiamo deciso di metterci alla prova con queste riletture dei testi cechoviani.

 

Nei vostri spettacoli non solo riuscite ad attualizzare Čechov ma lo avvicinate al pubblico…

Sì, proviamo a non limitarci solo a spostare il contesto ai giorni nostri, ma a fare anche un’operazione a partire da alcuni temi del testo che ci interessano spostandoli, come fossero dei cursori di un mixer, perché li sentiamo più contemporanei quindi spingendo in questa direzione. E lo facciamo anche lavorando su alcuni personaggi che possono diventare simbolici. In Vania succedeva a Serebrijakov che nell’originale è fintamente malato, noi lo abbiamo portato in uno stato comatoso, rappresentato dal macchinario che poi è il mixer luci, con cui tutti gli attori si relazionano, ma realisticamente era un uomo in coma per raccontare la situazione di stagnamento della società.

 

E in Io non sono un gabbiano?

In questo caso abbiamo fatto un’operazione rischiosissima, della quale avevo molta paura e adesso che lo spettacolo ha preso forma sono contento regga perché partiamo dal funerale di Arkadina, la protagonista, quindi dal funerale della madre. In questo senso non soltanto attualizziamo, ma spostiamo anche alcune dinamiche, alcuni equilibri tra i personaggi per raccontare quello che sentiamo più vicino a noi.

Perché hai scelto di mettere al centro la morte?

La morte vera, la morte in vita, il confrontarsi con la morte è fondamentale, alla fin fine è questo il tema principale perché tutti i personaggi si confrontano con la morte e con questa Arkadina che per qualcuno, come Kostja, è madre, per qualcun altro è amante, compagna, c’è un rapporto con la figura di Arkadina, che diventa appunto simbolica. Tutti i personaggi in qualche modo si relazionano o si relazioneranno con la paura o con il rifiuto della morte, a un certo punto c’è un morto che teatralmente abbiamo reso presente, in scena… La nostra è una tragicommedia, però, sentiamo tanto una mancanza di spinta vitale dei nostri coetanei, della nostra generazione e cerchiamo di raccontarla nei nostri lavori. Čechov la rendeva benissimo ai suoi tempi in altri contesti, noi la spostiamo, ma proprio come lui cercava di dare uno specchio della società, anche noi cerchiamo di dare uno specchio nostro, soggettivo, senza fornire delle risposte o dei messaggi, ma sperando che smuova qualcosa.

 

In contrapposizione a questo tema alto l’uso di Felicità di Albano e Romina serve a banalizzare il tutto?

Abbiamo lavorato tanto sulla banalizzazione di alcuni concetti come l’amore, la felicità, su come spesso vengono svuotati di senso. Registicamente abbiamo giocato con canzoni molto pop di cui i personaggi non si ricordano neanche le parole. Abbiamo pensato che spesso si canta Felicità al karaoke, e il karaoke è presente nel nostro spettacolo come base molto semplice, musicale, e rappresenta la banalizzazione totale, spesso si perde il significato di quel che si canta. Ma che cos’è la felicità? Non sappiamo rispondere a questa domanda ed è tradotto nella canzone che i personaggi cantano in un momento che dovrebbe essere di felicità estrema, un matrimonio, però con una percezione totalmente svuotata del senso della parola.

 

La drammaturgia dei vostri spettacoli è collettiva. Come lavorate?

Partiamo da una mia ideazione, propongo ai ragazzi un tema di cui parlare e chiedo agli attori di accompagnarmi in questo processo di scrittura perché ci siamo accorti che nel momento in cui poi gli attori devono portare quelle parole, il fatto che le attraversino da improvvisazioni o da bozze di scrittura a tavolino, porta maggiore verità all’interpretazione. Poi io mi occupo di scegliere, di guidare, di selezionare la drammaturgia finale, però c’è molto spazio creativo per gli attori che diventano anche autori e molte cose che ci sono nel testo sono state scritte o improvvisate da loro, poi magari rielaborate da me, ma il cuore pulsante è venuto anche da loro. Questo modo di lavorare è vincente perché trovano un linguaggio che è aderente anche al loro portarlo in scena.

 

In pochi anni avete avete ottenuto importanti riconoscimenti…

Sta andando davvero bene. I primi anni è stato più faticoso, adesso abbiamo un assetto più definito. Prima essendo tutti attori ci scambiavamo i ruoli, poi le cose sono un po’ cambiate, mi sono messo fuori… E negli ultimi tre anni siamo riusciti anche ad allargare gli orizzonti rispetto alla Lombardia, spostandoci sul territorio nazionale. Questo è fonte di orgoglio per noi, così come fa sempre piacere quando viene riconosciuto il lavoro che fai.

Foto di Luca Meola

www.oyes.it