«I film raccontano sempre due epoche. Una è quella in cui sono ambientati, il contesto storico in cui si dipana la trama. L’altra è quella in cui vengono realizzati. A volte le epoche coincidono, nei film di ambientazione contemporanea. A volte diventano tre». È una delle premesse di Storia d’Italia in 15 film di Alberto Crespi, giornalista e critico (L’Unità, Hollywood Party) pubblicato da Laterza (pag.281 ,20 euro). È un percorso articolatissimo, lontano dalla rassegna pedante e accademica, su come il nostro cinema ha raccontato la storia nazionale, spesso lateralmente, spostando l’ambientazione in un’altra epoca e usando il genere come strumento. Alla lettura storica talvolta si affianca quella psicanalitica, per esempio quando si indica il fascismo come “una parte che non ha partito politico” nel carattere italiano in Amarcord o si parla del PCI come “casa madre” nei film di Moretti. O quando si raccoglie la suggestione di Daniele Vicari sull’Italia come Paese caratterizzato “dall’innamoramento per il capo”. Come assunto, il fatto che la democrazia italiana nasce imperfetta e divisa. E il paradosso per cui abbiamo uno dei migliori cinema del mondo, proprio a causa dei rimossi, dei misteri ancora irrisolti della nostra storia nazionale e di un’unificazione forzata e non ancora acquisita, nemmeno oggi. Affermazioni dimostrate a suon di esempi, con scrittura agile e piacevole, puntellata da una bibliografia storiografica. Un saggio insomma che emana un amore (che è cosa molto diversa dal fanatismo) per il cinema italiano e una volontà di conservazione della memoria storica del Paese. In mezzo – in una selezione che per forza di cose lascia fuori alcuni anche importanti autori – ci sono tanti, tantissimi film: dal raro western (Se sei vivo spara di Giulio Questi, 1967, come opera sulla Resistenza) alla prima serialità televisiva che sotto il codice del costume allude all’imperialismo capitalista (Sandokan di Sergio Sollima, 1976). Fino ai cortocircuiti del passato recente come Diaz di Daniele Vicari, esempio di racconto di ciò che è cinematograficamente incedibile tramite il genere horror, il cinema del berlusconismo e Nanni Moretti, l’uscita di Suburra di Stefano Sollima, in controtempo rispetto ai fatti di Mafia capitale. Molto più dei 15 film del titolo, insomma. Grazie alla penna competente e pop di Crespi, che sa trattare nella stessa pagina Marco Bellocchio e Checco Zalone, i peplum con Ercole e il cinema di Elio Petri, Walter Benjamin e Franco Califano, si ha la voglia e l’urgenza di andare a scoprire o rivedere. In apertura un’immagine tratta da La macchinazione di David Grieco.
Com’è nata l’idea del libro?
Il libro è, per così dire, su commissione. Avevo realizzato con Laterza – in collaborazione con il festival Le vie del cinema di Narni, che dirigo – la ristampa del libro Cara Emi sono le le 5 di mattina, la raccolta delle lettere di Vittorio De Sica alla figlia Emi. Il libro è andato bene e Laterza mi ha chiesto di farne uno mio, cosa che ho accettato con onore, entusiasmo e trepidazione. L’idea è venuta a un bravissimo redattore che si chiama Giovanni Carletti, che è diventato un amico e che mi fa piacere citare. L’ha formulata così: «facciamo un libro sulla storia d’Italia in 10 film…». Da lì è partita una trattativa in cui io cercavo di strappare più film… 20 erano troppi, alla fine ci siamo concentrati su 15. Confesso che avrei voluto mettere nel libro almeno altri due capitoli, uno sul terrorismo (in parte sintetizzato altrove) e uno sull’emigrazione interna, che però è più un fenomeno sociale di lungo termine piuttosto che un momento storico singolo. Ti dico comunque che il film che avrei scelto come “traino” del capitolo non sarebbe stato Rocco e i suoi fratelli né Così ridevano, ma Mafioso di Alberto Lattuada, un film magnifico e credo un po’ troppo dimenticato. È la storia di un siciliano emigrato a Torino che torna in famiglia per una vacanza, ed essendo un bravo tiratore viene spedito nell’arco di una notte in America per compiere un omicidio. È una parabola surreale e ferocissima sulla mafia che non ti lascia mai, che è sempre dentro di te. E il protagonista, Alberto Sordi, è talmente bravo da essere credibile anche come siciliano.
In un periodo in cui finalmente si torna a parlare di cinema nelle scuole, hai pensato a una sua funzione anche didattica, nello scriverlo?
Il film nasce da un’esperienza didattica, come spiego nella postfazione. Nasce dalle proiezioni di film che facciamo ormai da anni al liceo Aristofane di Roma. Farlo adottare come testo nei licei sarebbe un sogno. Non credo sia un libro universitario (troppo poco “scientifico”, troppe scelte personali) ma per ragazzi di 17-18 anni credo sarebbe perfetto.
Nella tua selezione un occhio di riguardo va a Nell’anno del Signore di Luigi Magni (1969), ambientato nella Roma del 1825 ma che in realtà racconta l’incompiuta rivoluzione sessantottina («vonno congiurà e so’ fregnoni!»). Ma anche a Tosca (1973) e a Scipione detto anche l’Africano (1971). Magni è un autore sottovalutato? Se sì, perché?
Magni è morto tre anni fa e mi sembra già ampiamente dimenticato. A me è sempre sembrato un cineasta originale e spiazzante. Devo però confessare di essere parziale: lo conoscevo bene, mi stava simpaticissimo, eravamo – credo di poterlo dire – amici. Mi diceva sempre: «Voi milanesi, quando diventate romani, siete più romani de noi». Alludeva anche al suo attore Gianni Bonagura, milanese purosangue che negli ultimi anni si è specializzato nella lettura dei sonetti del Belli (è quello che in La Tosca dice alla Vitti «abbada che caschi»). Un’amica mi ha detto che il libro è in realtà un cripto-libro su Magni. In fondo è così. Nessun suo film “intitola” un capitolo ma citazioni dai suoi film aprono il libro e tutti i capitoli, e lo chiudono. I film di Magni sono molto singolari. Apparentemente sono commedie, in realtà raccontano storie drammaticissime riempite però di battute buffe e di ironia. Lui stesso diceva: «Più che film ho fatto dei cimiteri», perché morivano sempre tutti! La sua scuola è quella di Rugantino, il celebre musical di Garinei e Giovannini del quale fu sceneggiatore (e in quell’occasione divenne amico di Trovajoli e di Manfredi). La chiave era sempre: raccontare con cura filologica una storia del passato, per alludere al presente. Ammetto, come mi rimprovera sempre Gianni Amelio, che a volte tale chiave è fin troppo scoperta, un po’ didascalica. Ma in fondo so benissimo che Magni era meno geniale di Rossellini, meno comico di Risi, meno epico di Monicelli (un’epica stracciona, ma sempre tale), meno bravo di Visconti. Però i suoi film sono un’incredibile fusione di Storia e di comicità. E le sue battute folgoranti mi servivano per “punteggiare” il libro e anche, perché no?, per strappare qualche risata. Volevo fare un libro anche divertente, Magni mi ha dato una mano.
Scrivi anche che “la conquista di La ragazza con la pistola è il vero ’68 realizzato dal cinema italiano”. Perché? E per quali motivi non abbiamo avuto film più espliciti su quel periodo?
La ragazza con la pistola (che, curiosamente, è sceneggiato da Magni) è uno dei rarissimi film “internazionali” del nostro cinema. Nel senso che la storia si svolge altrove, un Altrove enorme e alieno per quegli anni: gli anni ’60, la Swinging London, le minigonne, la libertà sessuale, il rock’n’roll… e anche l’emigrazione vista in modo grottesco. Alla fine del film la Vitti diventa”inglese”: da mora a bionda, da nerovestita a figlia dei fiori. Credo fosse il massimo della rivoluzione che il cinema italiano di quel momento potesse raccontare. Nel capitolo sul ’68 ho voluto mettere soprattutto film in cui il ’68 sia una sorta di substrato, di coscienza quasi inconsapevole. Ci sono stati film espliciti, ma spesso non sono un granché. Non so, Partner non è certo il miglior film di Bertolucci, autore che per altro nel film – lo confesso – ho colpevolmente trascurato. Bisogna anche ricordare che fino alla fine degli anni Sessanta il cinema italiano era talmente forte e ricco dal punto di vista produttivo, che esordire, per autori giovani, direttamente coinvolti nel ’68 era molto difficile. C’era stata un’ondata di esordi all’inizio degli anni Sessanta ma si trattava per lo più di trentenni (allora) che quando è arrivato il ’68 ormai erano quarantenni. Solo Bertolucci e Bellocchio, tra i registi importanti, erano under 30.
La voce di Pasolini è uno dei fili rossi della tua trattazione; oltre al capitolo dedicato a Salò (1974) citi il recente La macchinazione di David Grieco come chiave d’accesso al caso PPP. Secondo te è il miglior film realizzato sul tema?
Non so se è il migliore, però lo preferisco a quello di Giordana – e quello di Abel Ferrara mi ha fatto orrore. È sicuramente il più acuto, anche se non si tratta di una ricostruzione cronachistica (contiene molte cose immaginarie, ma comunque legate alla realtà dei fatti). In realtà credo che David — che per la cronaca è uno dei miei migliori amici, abbiamo lavorato a L’Unità insieme, siamo legatissimi — abbia fatto un vero capolavoro con il libro omonimo, edito da Rizzoli. Lì ha ricostruito tutto con la penna del cronista di razza, il libro è avvincente come un giallo e documentato come un dossier. Anche perché David c’era: aveva lavorato con Pasolini (aveva un piccolo ruolo in Teorema), era stato suo assistente, erano amici, si frequentavano ancora di più con Sergio Citti, con cui David ha poi lavorato come sceneggiatore e del quale, per suo tramite, sono diventato grande amico anch’io). La sua tesi – l’omicidio politico causato da tutto ciò che Pasolini stava scoprendo su Gelli, su Cefis, sulla P2 e su tutti i suoi agganci con la politica – mi sembra estremamente convincente. Francamente credo sia andata così. E quindi, anche in questo caso – per citare Pascarella – «semo tutti ne la storia», perché Pasolini è stato ucciso da quello stesso rigurgito antidemocratico che aveva messo in scena, surrettiziamente, in Salò: raccontando il fascismo storico ma alludendo chiaramente a quello che era tornato a uccidere, a mettere bombe, a tramare contro la democrazia.
Parlando dei film di Francesco Rosi ed Elio Petri, ma anche del Divo di Paolo Sorrentino e di Diaz di Daniele Vicari, rievochi – tramite le parole di Vicari, che a sua volta le riprende da Walter Benjamin – la necessità del cinema di fare il “contropelo” alla Storia. Cosa vuol dire?
Credo che Daniele intenda due cose. In primis, raccontare la storia andando “contro” la vulgata ufficiale (e questo è sicuramente vero nel caso del suo Diaz). Poi, cercare di usare una storia per raccontare un’altra storia (ed è sicuramente quello che accade in Salò). È quello che mi ha spinto a fare il libro, il senso profondo — almeno spero — di questa avventura. Non amo molto i film “storici” in senso proprio, i kolossal tipo Il Gattopardo o Waterloo. Ce ne sono di belli, come no? Pensa a Barry Lyndon, uno dei miei film della vita. Ma, pur parlandone, volevo privilegiare film che raccontano la grande storia facendo finta di parlare d’altro. Di qui scelte bizzarre come il western di Questi per la Resistenza, o la serie Sandokan per il ’68. Ecco, prendiamo proprio Sandokan: la fonte è Salgari, però lo sceneggiato comincia con una sequenza di tre minuti in cui, su immagini d’epoca (foto, stampe) una voce off spiega il contesto storico in cui Salgari ambienta le avventure di un principe malese, diventato pirata, che combatte contro l’imperialismo inglese. È un attacco che Salgari non avrebbe mai scritto, anche se forse l’avrebbe condiviso. Ed è un attacco che, negli anni Settanta, non può non far pensare a Cuba, al terzo mondo, alle lotte di liberazione, alla fase terminale del colonialismo. Almeno, io ci ho pensato. E devo dire che il momento in cui ho tirato fuori Sandokan è stato quello in cui, al redattore di Laterza Giovanni Carletti sono brillati gli occhi ed entrambi abbiamo capito che questo libro si sarebbe fatto e forse sarebbe venuto bene. Perché ci sembrava una lettura non convenzionale dell’argomento “storia raccontata dai film”. In fondo abbiamo fatto un po’ il contropelo alla storia del cinema, cosa che ci ha molto divertito. Un altro passaggio di cui sono immodestamente soddisfatto è la lettura della saga di Don Camillo alla luce delle tensioni politiche del ’48 (un anno a confronto del quale le polemiche di questi giorni sul referendum sono una passeggiata di salute) ma anche dei primi, timidi tentativi di “conciliazione” fra le due grandi chiese, la cattolica e la comunista, in cui si divideva l’Italia di allora. Tentativi nei quali il cinema ha bypassato la letteratura (perché Guareschi cercava lo scontro, non la conciliazione!) e ampiamente anticipato la politica. Anche in questo caso il cinema ha fatto il “contropelo” alla storia, intuendo passioni, rabbie e desideri che erano già presenti nella vita quotidiana delle persone ma non erano ancora stati intercettati dalla politica né dalla cultura “alta”.
Perché hai scelto come immagine di copertina un esterno di Gomorra – La serie?
L’editore voleva una foto “moderna”. Avevamo provato anche 3-4 bellissime foto di Tutti a casa e di C’eravamo tanto amati: erano belle ma, secondo gli amici a Laterza, un po’ “rétro”. L’idea di mettere in copertina una foto da una serie tv famosissima mi è sembrata un gesto al 33% paraculo, al 33% provocatorio e al 33-34% – spero – intelligente. Ho chiesto il permesso a Stefano Sollima, che ha aderito con entusiasmo; mi ha messo lui in contatto con Emanuela Scarpa, la fotografa di scena (bravissima!), e con i boss di Cattleya e Sky, che dovevano dare l’ok. Sono stati tutti concordi e gentilissimi. Ti svelo un segreto: io avrei voluto che il titolo fosse in realtà un sottotitolo, e come titolo avevo proposto Da Quarto a Gomorra. La citazione di Da Quarto al Volturno, il libro di Giuseppe Cesare Abba sull’impresa dei Mille, piaceva… ma non del tutto. A Laterza l’hanno giudicato un po’ criptico. Ovviamente avevano ragione loro, ma un po’ ancora mi dispiace.