Raging Fire di

TFF39 – L’amore e il genere: Pier Maria Bocchi racconta Le stanze di Rol

Arrivata al secondo anno, la sezione tematica Le stanze di Rol continua a indagare i percorsi del Torino Film Festival nell’ambito cinema di genere contemporaneo, aprendo le sue porte a “luoghi ignoti, su geometrie non omologate”, in ossequio al celebre alchimista cui è intitolata. L’ambizione è quella di tenere insieme una proposta culturale data da una selezione indirizzata a un forte precipitato qualitativo, senza però dimenticare la visibilità data da un ensemble interamente in anteprima italiana (e a volte mondiale), con 13 titoli provenienti da tutti e cinque i continenti, alla ricerca della purezza perduta dei generi. Rispetto all’anno precedente, infatti, la selezione 2021 punta su formati più tradizionali e filoni maggiormente definiti, recupera alcuni autori di culto (Paco Plaza, Lorenzo Bianchini) e si immerge fin nei meandri dell’action hongkonghese con l’anteprima dell’atteso Raging Fire, ultimo lavoro di Benny Chan. Nel mezzo storie di spiccata durezza, vendetta e legami non convenzionali, come quello tra la protagonista di Extraneous Matter (Complete Edition) e un mostro tentacolato. Un film, quello di Keniichi Ugana, che recupera iconografie del sottofilone hentai in un’ottica d’essai data dall’uso espressivo del bianconero. È inoltre più forte anche il legame con la distribuzione: un paio di titoli (Coming Home in the Dark e il già citato Raging Fire) sono già parte del listino 2022 di Koch Media, mentre l’inedita partnership con Rai 4 permette a due lavori dello scorso anno di ottenere un primo passaggio televisivo durante il festival (si tratta degli ottimi The Dark and the Wicked di Bryan Bertino e Lucky di Natasha Kermani). Di tutti questi aspetti abbiamo discusso con Pier Maria Bocchi, curatore della sezione, che ci ha illustrato le scelte compiute e la visione che ha animato questo percorso biennale nel suo complesso. (In apertura un’immagine di Raging Fire di di Benny Chan).

 

Coming Home in the Dark di James Ashcroft

 

Il cinema di genere è sempre stato un territorio d’indagine privilegiato del Torino Film Festival: penso alla grande stagione delle retrospettive dedicate a maestri come John Carpenter e George Romero, fino alla lunga parentesi della sezione tematica After Hours. Il lavoro di selezione per Le stanze di Rol in che prospettiva si pone rispetto a questa tradizione?

Fin dall’inizio, d’accordo con il direttore Stefano Francia Di Celle, ho voluto che il lavoro per le Stanze di Rol si ponesse in un’ottica di forte discontinuità rispetto a quello fatto da After Hours. Nella mia intenzione, infatti, le Stanze non dovevano rappresentare una semplice vetrina di quello che si produce nel mondo oggi, ma dovevano operare scelte più “radicali”, attraverso una selezione più pensata. L’ambizione era di farne un laboratorio di ricerca sul genere contemporaneo, seguendo ogni anno un determinato filo logico.

 

Quindi la scelta di un taglio differente rispetto alla selezione del 2020 è il frutto di una strategia elaborata già a monte?

Assolutamente, è il frutto di una scelta dettata da varie ragioni. Innanzitutto dalla mia ossessione per le immagini e per il loro linguaggio, che volevo applicare al genere componendo, nel 2020, una selezione che fosse evidentemente di rottura rispetto al lavoro di After Hours, tanto per chiarire subito i termini del mio discorso con lo spettatore tipo della sezione. Quest’anno non c’era la stessa urgenza e inoltre, in selezione, ho notato come la qualità media dei film di genere disponibili fosse di un livello eccezionalmente superiore rispetto all’anno passato, fatto che mi ha permesso facilmente di poter cambiare rotta evitando ripetizioni.

 

In effetti l’aspetto che subito saltava all’occhio nel 2020 era anche la diversità nella scelta dei formati: insieme c’erano lungometraggi, corti, mediometraggi, prodotti televisivi e cinematografici, laddove quest’anno la selezione appare più coerente nella ricerca del formato lungo tradizionale.

È così, l’idea era di riportare il genere – in tutte le sue articolazioni: horror, thriller, eccetera – alla sua forma, se vogliamo, più “basica”, alla sua purezza e il materiale lo permetteva in modo particolare. Confesso che mi sono anche chiesto il perché di questa voglia di ripartire da zero, che ha accomunato molti paesi. Per citarne uno, un film come La abuela, riesce nella sua semplicità a compiere un’operazione radicale, spazzando via un decennio di pessimi horror spagnoli per riportare in auge la grande tradizione del fantastico iberico.

 

Mi sembra anche che, rispetto all’anno scorso dove si lavorava molto sul paesaggio urbano e metropolitano – penso a titoli come Funny Faces, Regret, Fried Barry – quest’anno alcune delle scelte lascino emergere una voglia di uscire dalle città, cercando orizzonti diversi: valgano gli esempi delle montagne neozelandesi di Coming Home in the Dark, dell’isola di Offseason e anche degli esterni inglesi di Bull.

Sono d’accordo, c’è una sorta di cambio di orizzonte, sempre tutto filtrato però attraverso un isolamento dell’individuo. Nei titoli che hai citato questo scenario “esterno” si pone sempre in relazione a uno spazio molto piccolo in cui sono rinchiusi i personaggi, sia esso l’abitacolo dell’auto di Coming Home in the Dark o l’appartamento di La abuela o la casa di Good Mother. Un ripiegamento che sembra escludere il mondo esterno, un aspetto che pure mi ha affascinato molto in selezione.

 

Offseason di Mickey Keating

 

È interessante anche il lavoro che fai sui nuovi autori: da un lato la legittimazione di talenti ancora “emergenti” e non storicizzati, come Bryan Bertino nel 2020 o Mickey Keating quest’anno; dall’altro la ricerca di nuovi talenti, come fu Santiago Menghini l’anno scorso. Tutto questo in un periodo in cui la centralità dell’autore si sta perdendo, a causa delle pressioni di un mercato che spinge di più verso concetti come “franchise” o “property”.

Credo ancora molto all’importanza del concetto di autore, pur senza gli eccessi di certa critica ideologica per difendere alcuni nomi a ogni costo. Mi piace invece lasciarmi stupire, come è accaduto appunto con Keating di cui non avevo apprezzato per nulla i precedenti lavori e che invece stavolta mi pare abbia realizzato un film che funziona molto bene, nudo nella sua esibizione di quello che gli piace, con quell’aria dove tutto è permesso. Allo stesso modo mi piace scommettere, pur con i rischi del caso: ad esempio non nascondo che dall’esordio nel lungometraggio di Santiago Menghini mi aspettavo molto di più, dopo corti eccellenti come Regret. Ma anche questo lato “ignoto” rappresenta il bello di questo lavoro.

 

L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini

Dal momento che il film di Menghini è una produzione Netflix, affrontiamo un attimo il discorso dello streaming: quest’anno hai fatto la scelta molto forte di escludere i film delle Stanze dalla programmazione online del festival.

Nel 2020 sono rimasto molto scottato dallo spostamento online dell’intero programma a seguito delle chiusure improvvise arrivate a poche settimane dall’inizio del festival. La selezione infatti era stata pensata anche in relazione alla destinazione di tutti quei formati che citavamo prima sul grande schermo. Anche quest’anno il pensiero di base, almeno in parte, è rimasto lo stesso, cioè scegliere film che potessero avere un senso maggiore se visti al cinema. Volevo quindi che la scommessa negatami l’anno scorso fosse ripresa. Da qui la scelta di rinunciare allo streaming, pur nella consapevolezza di rinunciare così a una parte del pubblico.

 

Personalmente sono d’accordo con questa scelta, che trovo sia affine al discorso di prima sull’autore: recuperare l’idea di un cinema frutto di scelte ragionate, nella sua collocazione originale, distante dalla proposta all you can eat delle piattaforme. La trovo una strategia che rende merito a un altro concetto che si sta perdendo, quello di una proposta più “culturale”.

È vero e lo sottoscrivo, anche se il rischio è pure quello di essere troppo romantici e di perdere di vista lo scenario contemporaneo, in cui anche il nostro sguardo e la nostra capacità di guardare sono cambiati. Bisognerà trovare una forma di mediazione per fare i conti con il presente, anche quando facciamo un lavoro di selezione per un festival.

 

Invece come nasce la partnership con Rai 4?

Semplicemente dall’entusiasmo dei responsabili di Rai 4 per la selezione dell’anno scorso. Si sono messi in contatto con noi ed è nata una collaborazione meravigliosa, di cui sono molto contento. Quest’anno hanno anche trasmesso due film della selezione passata, The Dark and the Wicked e Lucky, che così continuano ad avere una circolazione in Italia. Anche la sigla che hanno realizzato mi ha lasciato entusiasta, il loro reparto creativo ha fatto un lavoro eccezionale.

 

Visto che lo citavi, Lucky a mio parere è uno dei film più sottovalutati della selezione 2020.

Sì, è quello che ha ricevuto più critiche, ma portava avanti un discorso interessante e femminista sul cinema slasher, che lo rendeva anche molto importante per i nostri tempi. Bene quindi per questa seconda occasione.

 

The Strings di Ryan Glover

 

Per concludere: vuoi indicarci tre film imperdibili della selezione 2021?

Innanzitutto The Strings, che reputo il miglior horror dell’anno, tanto che l’ho scelto pur essendo del 2020 (per fortuna i ritardi della distribuzione internazionale hanno aiutato, solo adesso è stato acquisito da Shudder). Poi sono molto orgoglioso di What Josiah Saw, che è uno dei titoli più “forti” del programma. E infine Raging Fire, che celebra il mio amore di vecchia data per il cinema di Hong Kong. Fra l’altro è stata anche l’occasione per instaurare una collaborazione con gli amici Sabrina Baracetti e Thomas Bertacchi del Far East Film Festival e celebrare così tutti insieme il talento del compianto Benny Chan.