Trovare il posto dell’uomo nel cosmo. Intervista all’antropologo Matteo Meschiari

Incontriamo Matteo Meschiari, antropologo e scrittore, uno dei fondatori del blog La Grande Estinzione e del progetto TINA. Fra le sue opere spiccano Artico Nero (ed. Exorma), Bambini (ed. Armillaria), Neghentopia (ed. Exorma), L’ora del mondo (ed. Hacca) e il suo ultimo lavoro, La grande estinzione (ed. Armillaria).

 

 

Lascio a te la parola, senza anticipare con nessuna definizione, riguardo a qualcosa di importante che si sta muovendo nel mondo della letteratura e dell’immaginario, qualcosa che trova te fra i suoi promotori più attivi. Ti chiedo di raccontarci qualcosa a riguardo.

Da giugno di quest’anno con Antonio Vena abbiamo fondato un piccolo sito, che si intitola La Grande Estinzione, che ci ha permesso di attirare l’attenzione e di sollevare tutta una serie di problemi che sono delle criticità nel mondo della letteratura contemporanea, intercettando un disagio che era abbastanza diffuso rispetto a un modo forse a volte ripetitivo e autoreferenziale di fare letteratura. Abbiamo pensato che fosse necessario cominciare a guardarsi attorno. Una delle cose che abbiamo notato è che in anche in Italia, seppur con un certo ritardo, sta arrivando un insieme di suggestioni legate a un immaginario collettivo che si racchiudono in una parola bistrattata, a volte abusata, che è antropocene. Quest’idea che l’uomo ha una capacità di modificare il pianeta. Ora, non si tratta di capire, anche se io sono di quest’idea, se l’antropocene sia vero o meno, ma cosa sta accadendo all’immaginario collettivo da quando l’idea della fine annunciata è diventata presente, è diventata qualche cosa in grado di smantellare le vecchie visioni del mondo e regalarci un immaginario di tipo diverso, nuovo, più fosco ma capace di influenzare il nostro presente. Ora, a partire da questo abbiamo pensato con Antonio di fare una vera e propria mappatura di quello che è il terreno che forse conosciamo un po’ meglio che è la letteratura, perché l’immaginario non è solo quello letterario ma anche quello collegato a tutta una serie di altre forme di produzione di immagini che sono, per esempio, anche le graphic novel e le serie televisive. Ora, nella letteratura abbiamo cominciato a percepire un’attenzione anche alla luce di un’idea che è quella della grande cecità di Amitav Ghosh che denunciava il fatto che i letterati, non solo qui in Italia ma nel mondo, sono restii ad accettare questa idea che dobbiamo far entrare le nuove tendenze del mondo, il collasso che si annuncia nel mondo e nel sistema terra, in letteratura. E quindi abbiamo provato a capire anche con un’indagine che possiamo definire di etnografia digitale, che cosa stesse accadendo in rete nella piccola bolla degli scrittori italiani. Abbiamo notato molte resistenze ma, soprattutto, la disponibilità da parte di molte persone a confrontarsi letterariamente su questi argomento e da qui è nato un progetto che si chiama TINA, un progetto di collaborazione, collettivo, in cui una serie di scriventi oltre che di scrittori hanno deciso di dare corpo a tutta una serie di scenari del collasso non solo del futuro ma anche del passato dell’umanità che può dirci qual è al momento la temperatura del nostro immaginario su questi argomenti.

 

 

 

In generale, uno dei focus della tua ricerca è l’immaginario come strumento di espressione e di lotta politica. Ora, siamo vicini a Lucca Comics, questa gigantesca ondata di marea che comprende le più diverse forme di produzione di immagini: fumetti, letteratura, videogames, cosplay e molto altro. Siamo qui a una dicotomia interessante: da una parte si parla di un immaginario di proprietà di grandi aziende private, ma allo stesso tempo c’è una grande partecipazione dal basso. Dal coplay alla fan fiction, al fatto che ispirati da questo immaginario molti talenti danno il via a una loro produzione. Quali potenzialità ci sono, quali chiavistelli ci sono per utilizzar el’immaginario pop ai fini di un’azione politica?

Io credo che si debba agire in maniera virale. Non dobbiamo cercare di scalare la gerarchia e imporre a Netflix un certo tipo di immaginario ma rimanere sempre alla base e a livello virale cercare di inserire dei virus dell’immaginario che siano diversi che siano diversi da ciò che viene sviluppato alla base dell’immaginario collettivo prodotto dal sistema. Il punto è questo. Dobbiamo pensare che tutti quanti siamo capaci di immaginazione ma abbiamo dimenticato come si fa, e quindi abbiamo delegato l’immaginario ad altre persone, per esempio alle major, alle major editoriali per i libri, major mutimediali come Netflix e via dicendo. Alcuni prodotti sono molto interessanti però il punto è che se riuscissimo a convincere le persone che sono in grado di immaginare almeno quanto uno storyteller di Netflix, per me sarebbe molto interessante e se si costruiscono dei piccoli progetti dal basso non è detto che questa cosa non possa far crescere una nuova coscienza su questa cosa che è una capacità cognitiva e che ci appartiene come Homo Sapiens Sapiens.

 

Però è vero che a livello economico, anche senza tentare una scalata diretta per entrare nell’audiovisivo hai bisogno di soldi e pertanto ti ritrovi a esercitare un certo tipo di pressione.

Mi rendo conto di questa cosa ma penso che per raccontare le storie oggi come oggi abbiamo bisogno di una penna bic e di una risma di carta se siamo analogici, perciò insomma con cinque euro abbiamo risolto il nostro problema di produzione di una grande narrazione, ma se pensiamo alle narrazioni del passato in cui tutto si sviluppava a livello orale, e secondo me bisognerebbe iniziare a riflettere su come reinventare l’oralità oggi, secondo me siamo a costo zero. Lavorare su un immaginario a costo zero è possibile.

 

A questo punto però ti ritrovi con un avversario in grado di sovraspenderti. Qualcuno che la pensa diversamente da te. Ti ritrovi con poco a fare concorrenza a grandi player in un frangente in cui si è un po’ persa l’abitudine a fare uso di strumenti come la letteratura e la cultura orale. Il problema è che una volta che la storia l’hai creata la devi diffondere.

E’ un po’ come pensare l’antropocene: io non credo che possiamo invertire la rotta, abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. Non possiamo fare una rivoluzione ma possiamo pensare a strategie di sopravvivenza, secondo me sarebbe già moltissimo impiegare energie affinché un’ipotesi antropologica alternativa a quella dominante sia possibile. Già questa sarebbe una vittoria in quanto non credo alla rivoluzione ma credo alla resistenza senza speranza.

 

 

Uno dei concetti chiave della tua ricerca è il concetto di de antropizzazione. Lo vorresti approfondire?

La de antropizzazione significa che attualmente siamo al centro di tutto, ma possiamo pensare in termini politici che la letteratura ha la possibilità di raccontare la storia degli altri che non sono gli umani, cioè persone non umane che siano animali, piante, cose, pietre e paesaggi. Questo non significa cancellare la presenza dell’uomo ma lavorare con grande energia al fatto che decentrando l’uomo rispetto alla centralità della narrazione possiamo lavorare sui confini e sulle barriere. Noi siamo molto tassonomici ed è questo il nostro problema. Se noi corrodiamo le barriere, i confini e le tassonomie secondo me otteniamo narrazioni molto più interessanti.

 

Avendo l’uomo una grande capacità di incidere sull’ambiente a un livello a cui nessun’altra specie nemmeno si avvicina attualmente, fino a che punto puoi spingere la de antropizzazione conservando una rappresentazione autentica che non sia mistificazione? Fino a che punto puoi spostare l’uomo dal centro conservando una narrazione significativa?

Io credo che esistano narrazioni significative anche dove la de antropizzazione è stata più estrema, anche dove l’uomo è stato completamente cancellato, quando si faceva pittura di paesaggio e l’elemento umano nei fiamminghi è stato completamente eliminato, per la prima volta nella storia dell’umanità è stata fatta pittura in cui l’elemento umano era completamente assente. Ovviamente era presente nello sguardo dello spettatore, nel pennello del pittore e nella visione del mondo che il pittore stesso voleva dare. Quindi, anche in ipotesi estreme secondo me si possono ottenere risultati narrativi interessanti. Bisogna chiedersi qual è il risultato narrativo interessante che possa meglio incidere nel contemporaneo. Bisogna realmente eliminare completamente l’uomo come pretendono gli estinzionisti o gli accelerazionisti per cui dobbiamo arrivare a una distruzione dell’umano per guadagnare una purezza edemica del pianeta? Ecco, non so se è esattamente questa la cosmologia di cui abbiamo bisogno, ma possiamo chiederci qual è la vera strada per trovare il posto dell’uomo nel cosmo, non per eliminare l’uomo dal cosmo.