Opera prima scritta e diretta dal regista sudcoreano Cho Sun-ho, A Day inizia coi toni della commedia, quel comico un po’ fumettistico tagliato con l’accetta, reso un filo caricaturale da un doppiaggio grossolano, per poi precipitare presto in un contesto sempre più melodrammatico, che, trascinando la vicenda in un gorgo infernale, non lesina esiti grandguignoleschi, anche se sempre mitigati da una cifra antirealistica e riscattati da una dimensione morale (e da una morale, forse un po’ troppo telefonata). Se la descrizione può adattarsi anche per Parasite, qui dalla Corea del Sud ci arriva un prodotto decisamente più schematico e meno personale del film di Bong John-ho, che, prendendo le mosse dal principio narrativo reso perfetto in origine da Ricomincio da capo (The Groundhog Day, 1993, il giorno era lì quello della marmotta) di Harold Ramis, che ha dato vita a un vero e proprio filone transnazionale dai prodotti assai disparati, qui dà luogo a una sceneggiatura articolata, a tratti confusa, sull’eterno ripetersi di una giornata particolare, particolarmente nera, che si colloca all’incrocio di tre destini figliali/paterni sospesi fra salvezza e dannazione.
La storia è quella di un medico missionario, impegnato a salvare il mondo prestando soccorso nelle zone di guerra martoriate che, apparentemente votato al Bene e senza macchia, cura tutti i feriti dei conflitti con abnegazione assoluta. È naturalmente idolatrato dai media e candidato al Nobel per la pace (fa un po’ strano vedere questa pellicola nei giorni della scomparsa di Gino Strada!). E tuttavia, preso com’è dalla Causa, finisce per trascurare gli affetti famigliari, mancando sistematicamente i momenti importanti della figlia adolescente. Così, di ritorno da uno dei suoi viaggi per il mondo, in occasione del compleanno della ragazzina ma in ritardo, il dottore si trova ad assistere all’incidente in cui un taxi travolge fatalmente la bimba. Ma eccolo risvegliarsi sull’aereo che lo sta portando a casa, condannato in un loop tragico a vedere ogni volta la morte in diretta, provando, apparentemente invano, a cambiare il destino tragico spettatoriale in cui risulta incastrato, arrivando puntualmente troppo tardi. In realtà la vicenda è più complessa, e questa impasse rileva e rivela alcune verità nascoste (psicologiche e morali) che si celano dietro questo incubo arrovellato su se stesso e forse costituiscono il movente e insieme la chiave segreta del dilemma spazio-temporale. Ogni film che ha adottato questa struttura/incantesimo ha dovuto scegliere il tono per raccontare la dinamica dell’eterno ripetersi (dal comico al tragico, dal delirio di onnipotenza al tormento dell’impotenza, dalla routine alla dannazione) e la strada per far progredire una trama autoavviluppata in una sorta di possibile progressione, trovando infine lo stratagemma (narrativo ed etico) per riuscire a disinceppare in qualche modo il meccanismo, e dargli un senso e una chiusa. Cho Sun-ho costruisce di fatto un apologo sempre più esplicito sulla responsabilità, unica via di uscita dal ciclo infernale della colpa e della vendetta, sulla necessità infine di confessare, chiedere perdono ed espiare. E se la tonalità emotiva ed etica qui in gioco sembra molto più spessa che nel capostipite con quel Bill Murray vanesio e cinico alle prese con i capricci del tempo, il film di Ramis rimane un modello non eguagliabile di profondità di pensiero e felicità di scrittura, a riprova che l’attitudine critica di attribuire maggior valore al tragico rispetto al comico si scontra con fulgidi controesempi, e anche il dramma può scivolare sulle superfici vischiose della maniera di un prodotto onesto ma mai geniale, dove la morale invece di dare senso alla favola la banalizza un po’.