Una questione di margini. Di un’ossessione che si insinua tanto inattesa quanto cercata, che trasforma la vita (una parte di essa) di un uomo. Di ironia, nelle parole, nel tono con cui sono pronunciate, che descrivono l’assurdità della situazione, l’attrazione maniacale – inscritta nel linguaggio della sperimentazione che inghiotte i codici della finzione e del documentario, semplicemente facendoli esplodere – per un oggetto che calamita lo sguardo di una persona/di un personaggio. Il regista stesso. Calato dalla montagna nel corpo di una città dove re-inventare il proprio stare nel mondo. Un appartamento. Un lavoro. Nuovi amici. Un bar da frequentare. E quell’insegna posta in lontananza, visibile giorno e notte dalla finestra di casa. Un’insegna luminosa, pubblicitaria, girevole, formata da una sola lettera: W. Da qui il titolo del film, che la rende misteriosamente protagonista: W (2016, produzione canadese di 29 minuti, in anteprima italiana e in concorso alla 65ª edizione del Trento Film Festival), diretto da Steven Schwabl, artista versatile, oltre che regista, attore, cantante, romanziere, autore di testi teatrali, produttore (di un musical ispirato a Dracula). Collocata in cima a una costruzione di ferro (la voce off dell’uomo la paragona alla Tour Eiffel) a sua volta costruita su una piccola torre basata sul terrazzo di un edificio commerciale (un tempo quella W indicava la pubblicità dei negozi Woodward?, si chiede Schwabl, “maybe once, but no more”, si risponde, mentre l’immagine corrispondente alle parole è appunto una fotografia d’archivio degli Stores Woodward), la lettera assume nella mente del personaggio valori filosofici, assoluti, è quella iniziale della parola che si utilizza per formulare le domande (“Why”), è un segno portatore di risposte, bisogna decifrarla. Ormai l’uomo la vede dappertutto.
Anche sulla cima dell’Everest scalato nel 1980 da Reinhold Messner. Infatti, la mente occupata del personaggio-regista ha individuato l’analogia fra l’edificio con torre e la montagna asiatica, ha trovato il punto di contatto che cercava per legittimare la sua folle impresa urbana: come Messner ha compiuto quell’impresa entrata nella storia (non solo) dell’alpinismo, così egli salirà i piani dell’edificio, raggiungerà il terrazzo e si inerpicherà fino a toccare l’oggetto della sua ossessione. Ci riuscirà, scoprendo che quella W non dà risposte, che la risposta è nell’atto stesso del gesto compiuto. Schwabl ha utilizzato un formato e uno stile da cinema sperimentale e, dentro esso, da film-diario, con inquadrature sporcate da magmi luminosi espansi impalpabili o da effetti digitali, da home movie costituito di scene del presente e di immagini del passato – alcune (fotografie) per mostrare com’era l’edificio del desiderio, altre (fotografie e filmati) per ritrarre istanti della performance di Messner. Che, muto e lontano, in primi piani fissi, sembra osservare la sfida di quel giovane uomo che anche in città ha bisogno di un posto sul quale arrampicarsi, emulo tanto di Messner quanto di King Kong. Gli occhi lucidi e folli sanno vedere sempre altro e oltre: interpretare, immaginare, sfidare, superare le convenzioni dentro le quali si vorrebbe addormentarli.