Adolescenti in fuga: Simon Calls, di Marta Sousa Ribeiro, allo ShorTS 22

È un mondo sospeso fra più dimensioni, quello che racconta Marta Sousa Ribeiro in Simon Calls, suo lungometraggio d’esordio, presentato in concorso al friulano ShorTS International Film Festival alla presenza dell’autrice. Simon è, per l’appunto, il giovane protagonista, figlio di genitori divorziati, afflitto dal classico dovere del vivere nel momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, con gli esami scolastici che si approssimano e la possibilità di prendere un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti per fuggire e forse perdersi definitivamente o ritrovarsi. Questo tempo è raccontato in maniera scomposta, attraverso un andirivieni di momenti incastonati fra il presente e il passato, all’interno di un film mosaico girato proprio in tre anni diversi, con lo stesso attore: nel 2015, nel 2017 e nel 2019. Un po’ Boyhood, insomma, un po’ Mommy di Xavier Dolan per come questo fluire delle epoche si palesa attraverso un continuo allargamento e restringimento del campo visivo, per esaltare la dimensione soggettiva del flashback, ma anche la “chiusura” interiore di fronte a un mondo che non si accetta o comprende. Marta Sousa Ribeiro segue così il suo protagonista perso in questo mondo dalle coordinate trasparenti, che appare uno sfondo sempre posticcio, complice anche il lavoro di ricerca sulle inquadrature che sembrano sempre iscrivere la sua figura in motivi geometrici, ordinati come questa realtà che segue regole proprie, distanti dai contorcimenti dell’anima. Si crea in tal modo uno sfasamento voluto rispetto agli umori generazionali incarnati da un protagonista fermo eppure mobile, indolente eppure alla perenne ricerca di qualcosa, come scisso fra una madre stanziale e attenta nel volerlo indirizzare, e un padre sì affettuoso, ma episodico, distante, altro (che pure il nostro raggiungerà nel finale in Francia).

 

 

La naturalezza ammirevole del film è il modo in cui cerca di non essere formulaico nell’applicazione dei vari livelli estetici, emotivi e narrativi, tanto da far confluire naturalmente il piano oggettivo e quello soggettivo nei momenti in cui Simon usa la sua fionda per far esplodere aerei o automobili: una visione, o forse quella “chiamata” del titolo verso un mondo che non ascolta e su cui il nostro tenta in modo violento di intervenire. Ma anche una pulsione fantastica che rimanda a certo cinema portoghese aperto al fluire di ciò che è (im)possibile e alla contaminazione delle percezioni. Si crea in questo modo una sinfonia visiva che apre il tessuto della narrazione a continue variazioni e flessioni dell’immagine: ora “piccola”, ora aperta, ora sgranata nei flashback che hanno il sapore di un filmino familiare d’annata, ora documentaristica nello sguardo verso il reale, gli spazi, la gente che si avvicenda nell’aeroporto, sotto lo sguardo indagatore sebbene sempre scentrato del protagonista in attesa (del padre e del cambiamento). Non a caso, oltre ai tre tempi di lavorazione, il film utilizza anche tre diversi direttori della fotografia per i vari momenti ed effetti che vuole ottenere. Un autentico ensemble di stimoli, insomma, di volta in volta ricombinati alla ricerca di un effetto che sia composito, ma allo stesso tempo naturale nella confluenza delle singole parti.

 

 

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