Al cinema il director’s cut di Il disprezzo

Torna in circolazione nelle sale italiane (grazie alla Cineteca di Bologna) un film controverso e ai tempi sfortunato, ma destinato a diventare imprescindibile per un immaginario cinematografico non solo ricco, ma saggio e solido. Per la prima volta viene proposto il director’s cut del film, restaurato in 2K nel 2013 da Studio Canal. Può sembrare un discorso di quelli da primi della classe, ma basterà vedere o rivedere questo film (che ebbe non poche peripezie produttive, con tagli e censure tali da spingere Godard a rinnegarne la versione italiana fatta rimontare dal produttore Carlo Ponti) per accorgersi che si tratta di un’opera, solare e cinica al tempo stesso, sul cinema e su come, completamente e tragicamente, esso si intreccia alla relazione quasi inconciliabile tra uomo e donna. Discorso da sempre caro a Godard, e più volte investigato nell’evoluzione interiore dei suoi personaggi (da À bout de souffle a Masculin, féminin, da Nouvelle vague a Adieu au langage), che qui, invece,  viene letteralmente trasferito in una cornice altra, bellissima, ma crudele, perché nell’assolata Cinecittà e sotto il cielo blu di Capri il regista non concede appigli ai suoi personaggi (non più la città, Parigi, con tutti i suoi angoli noti e rassicuranti), ma li costringe a vivere come sospesi nel nulla, stranieri e smarriti in spazi che sembrano decadenti (i teatri di posa che sarebbero stati dismessi subito dopo le riprese, la villa disabitata e chiusa da tempo) e in bilico, infine, su quella scalinata nuda di villa Malaparte, che sembra finire nel vuoto, sotto il sole, tra cielo e mare. E senza alcun “conforto” cromatico, perché non ci sono sfumature in questi ambienti dominati da linee rette (reali o allusive) ma solo colori saturi e potenti. Rosso, giallo, blu, bianco, nero dominano la lunghissima scena nell’appartamento romano di Paul e Camille, il vero cuore del film, che è anche una coreografia perfetta e un saggio di regia in interno, dove lo spazio dice più delle parole e quei colori hanno la forza di sottrarre profondità al linguaggio. E così si gira in tondo, tra porte che non hanno i pannelli e stanze che sembrano reduci da un trasloco recente.

 

Apodittico è anche il discorso sul cinema, e non a caso è Fritz Lang ad incarnarlo nella sua serafica presenza di cineasta che vede nell’Odissea segni di eclatante modernità e intende raccontare gli dei come creature immobili ed enigmatiche come statue, assorbite da sempre in un solo pensiero, e gli uomini come Ulisse, invece, investiti da mille dubbi e interrogativi, dominati dall’amore ma incapaci di capirlo davvero. Lang è la coscienza del cinema in questo film dove la settima arte è rappresentata nel suo aspetto teorico e pratico insieme. L’astrazione del pensiero e le mani al lavoro (come sarà più tardi in Passion). Il cinema è il meccanismo stesso del film, come dimostra l’incipit, il lungo piano sequenza in cui la macchina da presa segue su un carrello, che si avvicina allo spettatore, una donna che legge. Poi l’obiettivo si fa prossimo, si gira e “guarda in macchina” sfacciatamente, come fecero molti anni prima Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. Perché un film sul cinema nelle mani di Godard non poteva che essere come i suoi film sulla vita e sull’amore, crudele e teorico, capace di scardinare dall’interno il linguaggio cinematografico, quasi a voler sabotare le convenzioni che fino ad allora si erano lentamente stratificate. Tutto viene messo in discussione con questo film, il modernismo di tanto cinema di quegli anni, ma anche il cinema hollywoodiano, il cinema d’autore, il divismo e le pretese intellettualistiche di certi scrittori. È necessario tenere gli occhi più aperti che mai in questa storia che ci parla di dei e società dello spettacolo. Per questo Godard sceglie tempi più lunghi e piani sequenza, rinunciando alla supremazia del montaggio per indugiare sulle cose e sulla loro rappresentazione.