Alle prese col mito: Bob Marley – One Love di Reinaldo Marcus Green

Illustrativo ma non agiografico, superficiale eppure onesto; e dunque credibile, anche se ciò non basta a portare a casa un risultato ampiamente soddisfacente. C’è, ad ogni modo, coerenza e un discreto equilibrio narrativo nel biopic Bob Marley – One Love, attraverso cui Reinaldo Marcus Green ha restituito alcuni momenti della vita del musicista giamaicano, il più iconico rappresentante mai esistito del reggae. Un’operazione attesa da tempo (in precedenza c’era stato soltanto il documentario firmato nel 2012 da Kevin McDonald, Marley), realizzata con la benedizione ufficiale della famiglia di Marley, che ha prima approvato la sceneggiatura e poi sostenuto l’opera, come confermano le dichiarazioni del figlio Ziggy: «È girato nei luoghi reali di Kingston in cui Bob camminava, giocava a calcio e cantava, ovvero Trench Town e Bull Bay. È una creazione artistica di cui siamo orgogliosi: confidiamo che possa divertire, ma anche essere di ispirazione per molti». Il regista Green (reduce da due biografie cinematografiche come Jamie Bell e King Richard – Una famiglia vincente) si concentra in particolare sul periodo che va dal 1976 al 1978, con una breve appendice che conduce speditamente fino alla morte di Marley, avvenuta nel 1981 per le conseguenze di un melanoma curato in maniera improvvida. Ciò che è accaduto prima di quegli anni – l’infanzia di Bob, la genesi del percorso artistico, la nascita del singolare rapporto affettivo con la moglie Rita – affiora solo attraverso una manciata di flashback, che tuttavia integrano a volte anche elementi onirici e premonizioni, rendendo (volutamente?) meno chiare le informazioni, più sfumata l’aneddotica stessa. Nelle prime scene, siamo catapultati in una Giamaica sull’orlo della guerra civile, con il cantautore – che in patria era già affermato e ascoltato, anche in virtù del suo impegno civile – che rifiuta di schierarsi apertamente, al punto che nei suoli live (oltre che nelle sue canzoni) contrappone platealmente la pace a chi predica invece violenza e divisione.

 

 
Ma, anche a causa di questa neutralità conclamata, il clima risulta infine insostenibile per Marley e la sua band, i Wailers. Che decidono di lasciare temporaneamente il Paese, trasferendosi in Inghilterra: ed è proprio da qui che la musica di Marley conquista il mondo, vendendo milioni di dischi e riempiendo stadi ovunque, facendogli acquistare una fama planetaria, intatta a più di quarant’anni dalla sua scomparsa. Una fama a cui One Love non aggiunge granché, non riuscendo per sovrappiù a spiegare in modo esaustivo l’aura mistica che senz’altro possedeva questo “soldato in missione per conto di Dio”. Non va infatti dimenticato che Marley era latore più che consapevole di un messaggio universale di amore e unione attraverso la musica, che tuttavia egli associava sempre alla propria fede Rastafari, religione sicretica (un mix di giudaismo e cristianesimo delle origini, con influssi ulteriori, sistematizzata intorno alla figura dell’imperatore etiope Hailé Selassié, ovvero Ras Tafari), che per lui era anche cultura e stile di vita. Il difetto principale del film è che non va mai in profondità, optando per rapidi e innocui quadretti, piuttosto che per l’affresco storico o, all’opposto, per il discorso intimo. Potrebbe essere la conseguenza di un’impostazione compromissoria, edulcorante, volta a sorvolare sugli elementi più controversi e contraddittori di un personaggio che non si sottrasse agli effetti della notorietà, anzi a volte li cavalcò con esiti sorprendenti: la supervisione al progetto della famiglia di Marley potrebbe d’altronde indurre ad avvalorare una simile tesi.

 

 
Senonché, lo svolgimento – come si anticipava più sopra – non è per nulla agiografico, non santifica né enfatizza: si limita ad accumulare situazioni e aneddoti (più o meno edificanti, più o meno significativi) con la convinzione che offrano un quadro d’insieme esaustivo, da cui tanto l’uomo quanto l’artista sarebbe emerso in tutta la grandezza del suo carisma. Cosa che, invece, avviene solo in parte, con non poche situazioni che paiono incollate senza che ne risalti il senso: ne è esempio tra i più eclatanti l’inserimento puramente oleografico di sequenze calcistiche, che si è portati a leggere come l’illustrazione casuale di uno svago collettivo, quando invece per Marley il football era un’ossessione, oltre che una imprescindibile pratica quotidiana a cui “costringeva” il proprio clan in qualsiasi luogo e condizione ambientale. L’impressione è dunque che Green non abbia attuato un’(auto)censura compiacente, quanto piuttosto che abbia optato scientemente per la cartolina, scevra da una più complessa articolazione, convinto che l’emozione sarebbe arrivata di default, sulla scia di una fotografia calda e variopinta, di un’interprete (Kingsley Ben-Adir) di notevole somiglianza anche se dalla fisicità più laccata e meno impattante dell’originale, di un inestimabile repertorio da cui attingere per una colonna sonora da urlo. Non è cosi: l’emozione arriva solo a sprazzi, anche se il mito di Marley non sembra risentirne.