Alps, il disumanesimo conclamato di Yorgos Lanthimos

C’è un che di involontariamente significativo nel destino di sala di Alps, qualcosa che transita dal tracciato di un film su impropri ritorni a distanza, spiazzamenti dei vissuti dolorosi e repliche esistenziali fuori tempo emotivo, al décalage distributivo che lo vede uscire solo ora, a cinque anni di distanza, nel paese che gli ha offerto la prima mondiale (era in concorso a Venezia 2011, con tanto di Osella per la sceneggiatura). Rivederlo dopo che Yorgos Lanthimos si è spinto nel nordico e  distopico The Lobster, ha qualcosa di spiazzante: la messa in scena del vissuto di un film sulla messa in scena dei vissuti, quasi a rimarginare la ferita, ormai lontana, lasciata all’epoca da un’opera che, vista oggi, assume il valore di chiusura di una trilogia iniziata con Kinetta (2005) e proseguita con Kynodontas (2009). Non che The Lobster abbia poi tradito il mandato di un cinema che per Lanthimos è espressione del distacco tra la pratica dell’esistere e la prassi delle emozioni, drammaturgia essiccata al sole di un umanesimo decaduto, tracce residuali di commedia nel portato di una tragedia ormai dimenticata… Però Alps sta lì, ancora oggi, con le stimmate di un film volutamente intransitivo, forse meno scostante dei due precedenti, magari perché più empatico nel suo schivare l’empatia. Insiste sul dispiego coercitivo di personaggi astratti dalla realtà, chiusi in un circolo più o meno vizioso di disperazione assordata dal narcisismo e dalla paura/voglia di vivere.

 

 

Lanthimos azzera come sempre lo sfondo, dilegua il concetto di società in una scenicità concentrazionaria che si conclude nel cortocircuito del gruppo esclusivo, nella escursione psicologicamente violenta tra scena e fuori scena. L’ipotesi narrativa e quella esistenziale dei personaggi coincidono drasticamente: ancora una volta, come in Kinetta, si tratta di impropri revenant, di corpi che entrano in scena per dare forma a fantasmi che hanno vissuto altrove. La società segreta che dà il titolo al film, nata in bilico tra un ospedale e una palestra (luoghi estremi in cui si celebrano la sofferenza e la salute del corpo), si offre di elaborare il lutto dei familiari reinterpretando per loro scene di quotidianità vissuta dai defunti. In realtà è tutto uno slittamento di messe in scena, finzioni che si accavallano in un ordito drammatugico che Lanthimos livella sul piano della falsità: difficile capire quando i personaggi parlano con voce loro o quando stanno recitando la parte loro assegnata. Il film è un agglomerato di disfunzioni esistenziali che si risolve in un ordito filmico uniforme nella prassi surreale, anzi antireale, di questi personaggi sospinti al di fuori da qualsiasi norma. Lanthimos assume il re-enacting come antro delle ombre in cui lasciar riflettere l’altrove della realtà, ma non è più gioco di idee e di corpi, quanto abbraccio desiderato e impossibile tra la sostanza delle emozioni e quella dei sentimenti. La virulenza che Lanthimos cerca è il frutto di una ferita che resta aperta nel corpo del vivente al di là del suo dissociato rifuggire dalla vita vera. Questi burattini semoventi che mettono in scena l’altrui vissuto annegando in questo mandato il proprio vivere sono lo spettro di una realtà che non corrisponde più a una vita autentica. E l’espunzione dell’infermiera che sanguina davvero è l’atto conclusivo di una tragedia a corpo morto, dunque freddo. L’obbligo di innamorarsi e di essere coppia felice in arrivo nel futuro distopico di The Lobster non è che il passo successivo di un disumanesimo ormai tragicamente e ironicamente conclamato.