Berlinale 66. Goat di Andrew Neel: l’autoscatto del potere

MV5BMTgwMzI2NjY5N15BMl5BanBnXkFtZTgwOTIwNTI5NzE@._V1_UX182_CR0,0,182,268_AL_La violenza come sistema, la sopraffazione come dinamica relazionale: in Goat, giunto alla Berlinale 66 (in Panorama) direttamente dal Sundance Film Festival, l’americano Andrew Neel lavora su una traccia che già da un po’ lo porta a riflettere sulla cultura del potere che scorre nelle vene del suo paese. In Goat sta sui brutali riti di affiliazione alle confraternite studentesche che garantiscono protezione e predominio nei college americani, ma già nei suoi film precedenti ha affrontato il tema del predominio e del potere, andando dal mito del successo da youtuber (King Kelly, su una ragazza che cerca la fama attraverso i video striptease) all’epica quotidiana dei giochi di ruolo live-action (il documentario Darkon), sino reali ai gruppi di potere finanziario (il doc complottista New World Order, sul Bilderberg Group). La matrice effettiva di Goat sta in un suo cortometraggio del 2006, Initiation, che esplorava lo stesso tema dell’iniziazione in una prospettiva sociale più bassa, quella di una gang del Bronx. In questo suo nuovo film, invece, Neel va a toccare uno dei gangli della teoria del culto del successo americano: la formula è quella del romanzo di formazione tradito nella prospettiva del predominio sociale e del mito di appartenenza al gruppo. Qualcosa che aveva già metaforizzato perfettamente il William Golding del Signore delle mosche: l’isolamento, la percezione assolutistica del gruppo, la necessità di riconoscersi in un sistema di potere al quale aderire non solo idealmente ma fisicamente…

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La prospettiva fisica del predominio che si incarna nella pratica della violenza subita/agita viene messa in gioco da Andrew Neel come base della parabola del suo protagonista, il diciannovenne Brad Land (Ben Schnetzer, già visto in Pride): l’aggressione che nel prologo subisce da parte di due sconosciuti cui ha dato un passaggio è  il marchio a fuoco che incide sul suo iPhone con l’autoscatto del proprio volto contuso, immagine riflessa di un’identità da proiettare nel mondo quasi adulto del college in cui sta per entrare. Qui ad attenderlo c’è il fratello Brett (Nick Jonas) e la confraternita di cui fa parte, privilegio di potere da conquistare con la soggiacenza ai ben noti riti di iniziazione a base di sottomissione fisica, umiliazione psicologica, prostrazione della personalità. Andrew Neel racconta il tutto concentrandosi sulla dinamica relazionale tra i due fratelli, facendo passare nel legame di sangue la percezione di una pietà che infrange le regojamesfrancole del dominio sociale per trovare la prospettiva umana nella relazione affettiva: Brett, posto di fronte allo specchio della violenza subita dal fratello in cui rivede quella subita da lui a suo tempo, innesca infatti un processo di r ifiuto di quel gioco di dominio. Esattamente come Brad cerca inutilmente di esorcizzare la violenza subita dai due sconosciuti nella violenza che accetta volontariamente per mano dei suoi confratelli. Il film attraversa dunque i ben noti luoghi comuni del college movie americano, scandagliando le trame del sistema americano di potere nella prospettiva psicologica degli affetti familiari e, specularmente, delle relazioni sociali. Non che ci sia troppo di nuovo, ma il film ha il pregio di essere una sorta di controcampo offerto a certo cinema americano contemporaneo che sta riflettendo sul sistema sociale statunitense: opere diversamente performative e autoriali come Spring Breackers di Korine o Project X di Nourizadeh. Non è del resto un caso se Goat si può fregiare del cameo di quello spirito americano inadempiente al suo stesso potere che è James Franco…