Berlinale 70 – La casa dell’amore di Luca Ferri, cinema claustrale maturato nel silenzio delle Orobie

Dopo Dulcinea e Pierino, La casa dell’amore, il terzo film che dovrebbe concludere la trilogia della casa, quella trilogia domestica che forse parte più da lontano, in quel film a quattro mani che Luca Ferri ha girato nel 2013 con Claudio Casazza, quell’Habitat [Piavoli] omaggio all’Autore Franco Piavoli, così vicino e così lontano dal percorso di Luca Ferri, ma così affine nella ricerca di una assoluta purezza di sguardo che corrisponde ad una uguale e diametralmente opposta purezza del cinema di Luca Ferri. Un film, quello, che condivide con questo molte affinità e soprattutto il desiderio di ricostruzione di una possibile biografia del protagonista attraverso i suoi oggetti, la ricomposizione di un possibile profilo che metta lo spettatore in connessione immediata con l’opera e il soggetto dell’opera. Il principio ispiratore del film origina dal disadorno, ma essenziale e dolente – come una frase di Bernhard – omonimo dipinto di Carlo Carrà e, quindi, le suggestioni dell’arte figurativa non smettono di alimentare la concezione filmica del regista bergamasco, che, da carsica e celata, qui si fa manifesta e luminosa, perfino nella riproduzione del quadro nel manifesto del film. Il cinema di Ferri, che conosciamo sin dal suo primo manifestarsi pubblico, avendo recuperato successivamente il tempo perduto e avendo incrociato in più occasioni i suoi sguardi pessimisti e a volte freddamente sarcastici, non è mai stato e mai sarà, empatico e conciliante. Distante da ogni attesa, arrivando perfino a mutare la sua natura, diventando opera opposta ad una concezione di ogni connaturata cinetica (Curzio e Marzio, 2014) o negazione di ogni rintracciabile narrazione, senza mai essere per nulla e in nulla vicino alle sperimentazioni godardiane, anzi smantellando ogni intellettualismo, in nome di una forma aulica e beffarda di goliardia con la quale ha saputo cogliere evidenti verità minimali (Colombi, 2017) o endemici mali sociali (Kaputt-katastrophe, 2012), in questi anni questo suo cinema ha saputo inventare forme efficaci per mettere in scena il disagio di un pessimismo che dalle mura di casa porta a quella universalità che si coglie nelle immagini dei film, per nulla caratterizzate o caratterizzabili e quindi in alcun modo e in alcun senso catalogabili.

Quello di Ferri è stato e continua, con altre modalità, ad essere un cinema perversamente ostinato nel lavorare ai fianchi di un sociale – sempre così distante eppure così presente e La casa dell’amore ne è la prova lampante – descritto come la manifestazione di un costante e ineluttabile fallimento culturale complice la mistificazione della favola della modernità. Un cinema a suo modo immobile che reitera nella ripetitività della propria struttura, proprio quell’immobilismo produttivo che l’autore lega al mondo artistico che ama (come disse in una intervista su Lo specchio scuro), come Morandi, ad esempio, che con le sue statiche nature morte, frutto di uno sguardo sempre frontale e identico, ha saputo descrivere un mondo invisibile. Il suo cinema percorre questa stessa strada, reiterando una ritualità congenita priva di ogni alienazione, se non quella che a tutti appartiene, ma significativa di una provvisorietà del quotidiano che si riduce ad una concezione pessimistica e bernhardiana dell’esistenza. Tema accennato anche in questo film dal personaggio feticista, che prova un sentimento di assoluta lontananza per il genere umano in ragione di una profonda e riconosciuta responsabilità per i mali del mondo. Ma è proprio la trilogia domestica, preceduta da Ab ovo (2017), nel quale si sono intravisti i primi segni di questa mutazione, a modificare gli assetti di questo percorso e a erodere i ferrei (è il caso di dirlo!) principi sui quali quel cinema, quelle immagini vivevano. Con La casa dell’amore, si fanno fermi almeno un paio di punti che restano imprescindibili. In primo luogo la razionalità della sua messa in scena, la cura estrema (maniacale?) delle inquadrature, elemento derivativo o conseguente (ciascun decida per sé) dell’impianto; di seguito, una distanza da ogni confusione con il mondo. Per la terza volta un film di Ferri si chiude con una assolutezza estrema dentro un ambiente domestico, tra le mura protettive di una casa, che diventa forma claustrale conseguente ad un profondo rifiuto di ogni socializzazione, espressione inconfondibile di una misantropia artistica che rompe legami consueti e consolidati, in favore di una estremizzazione della solitudine come forma di un ricercato e desiderato misticismo che assomiglia ad un eremitaggio sperduto, magari tra le Orobie, naturale habitat di ogni bergamasco amante della solitudine montanara. Il riferimento ai versi del grande Sandro Penna, in esergo al film, costituisce una chiara e non equivocabile dichiarazione di intenti. La poesia di un poeta solitario e chiuso dentro al suo mondo, ma con lo sguardo aperto sull’infinità.

Bianca è un transessuale che vive e lavora come prostituta nel suo appartamento, dentro i riti della cura del corpo, nei rapporti con i clienti, nel desiderio inappagato della vicinanza con Natasha, la sua compagna brasiliana che per ragioni familiari è lontana e con la quale ha solo lunghe chiacchierate in videochiamata. La casa dell’amore nella sua forma perfettamente consequenziale alla filmografia di Ferri, conclude con eleganza e altrettanta forza espressiva la trilogia domestica, riuscendo a finalizzare logicamente una costruzione filmica che non solo si fa originale rispetto agli altri due film, ma sa costituire la sintesi ulteriore, quasi a fondare una nuova concezione argomentativa. Se Dulcinea, girato in 16mm, si avvaleva dell’estremizzazione di un razionalismo implacabile e assolutamente ossessivo e Pierino, film in VHS, sembrava avere parzialmente alleggerito la razionalità della messa in scena per abbandonarsi ad un maggiore ed empatico rapporto con il suo protagonista, pur non abbandonando, invece, nella struttura quella indissolubile inflessibilità delle forme espressive, con La casa dell’amore l’autore ha saputo trovare un punto di stabile equilibrio tra queste due forme di espressione, tra questi due estremi dentro i quali il suo cinema si muove, oscilla e si stabilizza. Un cinema che, quindi, si fonda su una logica come sempre solida e non su una casualità argomentativa che a posteriori giustifichi le scelte artistiche.

La progressiva relazione che il film costruisce con la sua protagonista, che senza incertezze e falsa pudicizia sa mettersi al centro dello sguardo dello spettatore, è cosa ben strana e anomala nel cinema di Ferri e se è vero che proprio Pierino, l’altro assoluto protagonista dell’omonimo film, aveva fatto intravedere una simile possibilità, era anche vero che il rapporto con il personaggio filmico, in quel caso, era carico della meccanicità consueta nel lavoro di Ferri che si esprimeva in quella frase che apriva le giornate delle riprese con le parole: Cosa hai fatto questa settimana? Con Bianca le cose stanno in un altro modo e sembrano colorarsi anche di sfumature sentimentali, in quel misticismo solitario vissuto nel suo appartamento nella periferia della metropoli, illuminato dalle candele e riscaldato dai corpi che lo abitano. Ed è proprio il corpo, con la sua materiale fisicità, esplorato come forma di immanente mistero e di concupiscenza, a costituire una delle novità nel cinema di Luca Ferri. Un mistero ed una contemplazione del corpo che al cinema si manifesta, quando smette di essere finzione, per recuperare schegge di autentica verità, come forma visibile del dolore colto nella forma sacrale, il desiderio che sconfina sempre nel dolore, nell’apocalisse, dice il personaggio. È Dreyer con la sua Giovanna d’Arco e Lilly Carati, la pornodiva degli anni ’80, a mostrare, nel rifiuto di una violenza l’una e nella repulsione dell’atto sessuale l’altra, al voyeur quasi morettiano questo bagliore di verità. Bianca dal canto suo è un corpo inconsueto e quindi deviante, duttile e quindi disponibile, ma replicante di quella forma ideale immaginata da Carrà nel famoso dipinto che il film pone a fondamento del suo esistere. Corpo scarno e nudo, offerto allo sguardo, indifeso e fragile. Lo sguardo sui corpi sa diventare centrale nella bella sequenza dell’amore fisico, dove l’indissolubilità e l’indistinta appartenenza diventa forma ed espressione di un coinvolgimento amoroso, che fa da controcanto alla dichiarazione del personaggio un po’ feticista che utilizza il corpo di Bianca come altare rituale di un pasto irriverente, con una dichiarata distanza da ogni materiale fisicità amorosa. Ancora una volta, dopo Abo ovo, nel quale si intravedeva il germe della narrazione, il cinema in movimento, eppure solidamente piantato nei suoi principi, di Luca Ferri, mette a segno un’altra mutazione, imbocca un’altra strada espressiva. Un lavoro di fasi concatenate, di evoluzioni quasi invisibili. È in questa invisibile manifestazione che troviamo il senso della ricerca e della stabilità costante del suo cinema. Se ne sono accorti gli organizzatori di questa settantesima Berlinale che lo hanno voluto, unico titolo italiano, nel Forum, in questa ulteriore tappa di una internazionalizzazione del suo lavoro che mai, per questo, dovrà farsi accomodante e rispettoso delle aspettative del suo variegato pubblico.