Berlinale73 – Maputo Nakuzandza di Ariadine Zampaulo e il tempo della città

Maputo Nakuzandza, ovvero Maputo I Love You. Il titolo del breve e ovattato film d’esordio della cineasta brasiliana Ariadine Zampaulo è sintesi esemplare di un’opera costruita come un atto d’amore, un poema visuale, per la capitale del Mozambico. Una città e i suoi abitanti raccontati da un’alba a un tramonto, con un prologo e un epilogo che esprimono il senso della circolarità, del moto – di spazio e di tempo – sospeso che è il segno profondo di questo lavoro che si confronta con sincerità di sguardo con un pre-testo tante volte usato dal cinema (descrivere un luogo nell’arco di poche ore, con la voce di una radio che con i suoi programmi accompagna gli ascoltatori, e gli spettatori, lungo tutta la giornata) e qui ri-proposto evitando stereotipi, immergendosi con empatia negli ambienti filmati. Una notte sta finendo. Nell’inquadratura fissa che apre il film un gruppo di giovani alticci e poi una coppia sono attratti e incuriositi da un’auto ferma dentro la quale (non vista, la vedremo solo al termine della scena, aiutata da una donna di passaggio a coprirsi) c’è una ragazza in stato confusionale. Una giostra con ruota, ferma, vuota, occupa un’altra parte dello spazio (la ritroveremo nell’epilogo, al sorgere di una nuova notte). Comincia con questo incipit bellissimo, che fa da giuntura tra la notte e il giorno, Maputo Nakuzandza (proposto dalla Settimana della critica del festival di Berlino all’interno del programma chiamato “Cinecology” che comprende anche Teatro Amazonas, realizzato dall’artista statunitense Sharon Lockhart nel 1999, e Une si longue marche, del 2022, della belga Dominique Loreau). C’è chi va a dormire e chi inizia una nuova giornata intorno alle cinque del mattino. La radio tiene compagnia o è un naturale sottofondo – mentre si svolgono le tante, piccole, grandi, solite attività quotidiane – e trasmette informazioni sul meteo, notiziari, tanta musica e l’appello per una sposa che nel giorno del matrimonio è sparita. Quella donna in abito nuziale è uno dei personaggi del film, si aggira per le strade della capitale, vagando apparentemente senza meta.

 

 

Di lei, come di altri personaggi che, come la radio, accompagnano lo spettatore nella scoperta di Maputo, non si sa nulla, e nessuno ha un nome. Tra gli altri, un uomo in giacca e cravatta che prende i mini bus affollati per raggiungere il posto di lavoro, uno che fa jogging da mattina a sera in vari luoghi, un turista con zaino che esplora quello che gli sta intorno con curiosità e tranquillità, una donna che si prepara per uscire di casa… Una folla in costante movimento o singoli individui ognuno a modo suo definendo la sua presenza nel corpo della città. In un film che, al tempo stesso, è ritratto urbano fra edifici antichi e moderni, monumenti, scuole, moschee, posti trasformati in palcoscenici per danze e performances o per una processione religiosa cattolica. Fino a che la città si illumina all’imbrunire e offre un altro volto di sé. Ancora differente e affascinante. La gente si riversa nelle strade, nel rilassamento della sera, all’esterno o magari in una discoteca. Mentre quel moto sospeso si incarna del tutto nella scena che chiude il film nella quale l’uomo in giacca e cravatta, seduto in un’auto, osserva fuori dal finestrino e poi si addormenta. Perfetto ri-collegarsi all’inizio, a quell’altro stato di sospensione e di veglia. Tutto accade nel morbido e sensuale fluire adottato da Ariadine Zampaulo nel di-segnare una sinfonia per immagini, voci, suoni, rumori che si ripetono nel loro accadersi con un che di ipnotico nel modo di osservare e filmare il manifestarsi (messo in scena o “rubato” dal reale) delle situazioni.