Black Panther: Wakanda Forever di Ryan Coogler e la decolonizzazione del cinema hollywoodiano

La cornice all’interno della quale si sviluppa Black Panther: Wakanda Forever, sequel del popolarissimo Black Panther (2018), è il tributo al compianto Chadwick Boseman, primo interprete della Pantera Nera nei film del Marvel Cinematic Universe, scomparso prematuramente nel 2020 di tumore al colon. Inizia infatti così il film, con il funerale di re T’Challa, morto a causa di una malattia che neppure la sorella Shuri (Letitia Wright) ha potuto curare, non riuscendo a sintetizzare la miracolosa erba a forma di cuore distrutta precedentemente da Killmonger. Shuri e la regina Ramonda (Angela Bassett) vestite di bianco, seguono la bara con l’effige della Pantera Nera e le braccia incrociate del saluto wakandiano. La processione che si snoda attraverso il regno è punteggiata da carrellate sui ballerini che rendono omaggio al defunto re, asceso al cielo. Il solenne e doloroso continuum di immagini che forma il logo Marvel Studios è dedicato esclusivamente a T’Challa/Boseman. Questo l’incipit. A distanza di un anno dalla morte di T’Challa le potenze occidentali continuano a pressare il Wakanda perché condivida il proprio vibranio, sia attraverso richieste ufficiali, sia con mezzi illeciti, che vengono prontamente rispediti al mittente da Ramonda. L’America è però giunta in possesso di un rilevatore di vibranio progettato da una giovane scienziata del MIT, grazie al quale scopre un giacimento sottomarino, risvegliando le ire di Namor (Tenoch Huerta), re del regno sommerso di Talocan, che per secoli si è nascosto al mondo di superficie, e tale vuole rimanere, eccezion fatta per un eventuale attacco congiunto insieme ai wakandiani, al fine di ribaltare gli equilibri di potere e vendicare secoli di ingiustizie da parte del nord del mondo nei confronti del sud del mondo.

 

 

Shuri e Ramonda non vogliono però iniziare una guerra e tantomeno uccidere la giovane scienziata Riri Williams (Dominique Thorne), il cui acume e carattere ricordano tanto Tony Stark. La sceneggiatura è ricca di temi e spunti di riflessione, una tessitura di voci e identità differenti, un costrutto che si focalizza necessariamente su dinamiche politiche: dispiace quasi che Talocan e Wakanda non si uniscano nell’immediato contro i colonizzatori ma debbano passare attraverso una battaglia per stabilire quale approccio tenere. Una battaglia che però sortisce nel migliore dei risultati: alleanza, cooperazione, dialogo, senza sacrificare eroi. Il pregio di Wakanda Forever, così come quello di Black Panther all’epoca, risiede proprio nella riformulazione della narrazione, nella decolonizzazione del film blockbuster hollywoodiano: il cinema occidentale è un luogo politico e come tale deve essere messo in discussione. “Wakanda Forever!” è un inno. “Wakanda Forever!” è un invito. “Wakanda Forever!” è un’indicazione a tracciare e seguire un percorso epistemologico diverso, così come lo è il grido di Talocan. Azzardato scomodare il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos per parlare di un film? Forse, ma lo facciamo lo stesso: è alle epistemologie del sud che vanno le nostre riflessioni guardando il film di Coogler, alla necessità di una giustizia cognitiva globale, al desiderio di una giustizia sociale globale, contro il dominio occidentale che ha emarginato le culture del Sud del mondo spingendole oltre la linea abissale che divide i “selvaggi” da tutto il resto. Come non sentire la necessità di un nuovo tipo di cosmopolitismo nello scoprire la storia di Namor e del suo regno?

 

 

 

Namor e il suo corpo altro dal cliché nordamericano o eurocentrico; Shuri e il suo corpo altro, apparentemente fragile, carico di una rabbia virtuosa, che accoglie il percorso del leader. Anche personaggi e interpreti incarnano alla perfezione la tensione al ribaltamento di modelli dati. C’è tanto in questo film, tanto che avrebbero potuto essere due, e questo “tanto” (anche, ad esempio, il dover introdurre Ironheart) talvolta fa vacillare il meccanismo globale. Parlando a livello puramente cinematografico. Detto ciò, resta un film importante, come Black Panther lo fu nel 2018. Pecca vera, senza spoiler: la consueta scena dopo i titoli di coda ci ricorda purtroppo che si tratta pur sempre di un film Marvel/Disney, dimostrando di non avere in realtà elaborato il lutto metacinematografico e vanificando un poco il sincero tributo iniziale al re del Wakanda.