Café Society: un catalogo del cinema di Woody Allen

imagesNon si può ripetere il passato”. “ Ma certo che si può”, risponde Gatsby all’amico Nick nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald. E invece no, non si può: questa l’amara consapevolezza che avvolge il protagonista nel finale dell’ultima, divertente e amara commedia di Woody Allen. Il film ripropone nell’architrave un catalogo di vecchi e nuovi temi tipici del suo cinema: dal ritratto autoironico – e riuscitissimo – di una famiglia ebrea newyorchese, alla passione per il jazz e per lo swing, all’insofferenza per Los Angeles e il suo mondo fintamente dorato. Il tutto con dialoghi serrati dal ritmo brillante, ricchi di aforismi e massime sofisticate, quasi “à la Lubitsch”. “Io non voglio essere speciale, preferisco essere banale”, dice l’amata al protagonista.

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Siamo nella seconda metà degli anni Trenta e Bobby Dorfmann, giovane ebreo newyorchese e classico alter ego del regista, lascia la città natale per Los Angeles, allo scopo di tentare la fortuna ad Hollywood, dove lo zio Phil è un potente agente delle star. Qui si invaghisce di Vonnie (che potrebbe essere una Annie Hall d’antan), ma la sfortuna vuole che lei sia già l’amante del gelosissimo zio. Costretta a scegliere, Vonnie lascerà Bobby per Phil. La commedia sfuma allora  nel melodramma, con tutti i topoi dell’amore perduto, reso eterno dal ricordo. Ma non abbiamo il tempo di struggerci con il protagonista e di fare nostro il suo malinconico rimpianto, che veniamo ributtati a capofitto dentro il racconto: la storia riprende a narrare con ritmo incalzante il ritorno di Bobby a New York, la parabola del suo successo come gestore del locale del fratello gangster, il “Café society” del titolo e, infine, la sua vita di marito e padre apparentemente felice. Fino a quando il passato, sotto forma di un’inaspettata visita di Vonnie e Phil, irrompe nella routine e risveglia in lui il sogno di quell’amore mai finito. Per un attimo Bobby sembra voler vestire i panni di un Jay Gatsby deciso a riconquistare l’amata. Ma un alter ego di Woody Allen non può essere così tragico e assoluto: la malinconia finale che tanto deve, sì, a Fitzgerald, non è priva, però, di ironia e ricorda al contempo il finale di “Io e Annie”. In un misto di frustrazione e di stoica accettazione, non priva di struggimento, come ben riassume la dissolvenza incrociata sul suo volto e quello di Vonnie, Bobby realizza che la felicità di un tempo è sfuggita per sempre e che il passato, come le occasioni perdute, non può tornare indietro, per quanto lui continui a “remare, come una barca controcorrente”.