Cambiare le regole del gioco: Magic Mike – The Last Dance di Steven Soderbergh

Quando Magic Mike compare sui grandi schermi per la prima volta è il 2012. Steven Soderbergh dirige Channing Tatum (appena lanciato nel firmamento hollywoodiano) in una sorta di melodramma “sociale” che si ispira direttamente all’esperienza di Tatum quando a diciannove anni si esibiva come spogliarellista. L’alchimia funzionò al punto da spingere l’attore a proseguire con un sequel nel 2015 (Magic Mike XXL diretto da Gregory Jacobs, mentre Soderbergh era produttore, montatore e direttore della fotografia) e con uno spettacolo dal titolo Magic Mike Live, da lui ideato e diretto, in cui si fondevano teatro, danza, performance. Ora Soderbergh torna dietro la macchina da presa con Magic Mike –  The Last Dance e la magia del suo cinema splendidamente indefinibile torna a raccontare la storia di un paese che si confronta con le diverse e successive crisi economiche e la mancanza di occasioni di crescita da parte della middle class (proprio nel paese delle opportunità), costretta a tornare sempre sui propri passi dopo slanci, ambizioni e tentativi falliti. Mike ora ha quarant’anni e fa sempre più di un lavoro per sopravvivere, ma non si esibisce più negli streep club. Vive a Miami e ogni tanto si presta come barman alle feste dei miliardari.

 

 

L’incontro con la “padrona di casa” Maxandra farà rinascere in lui quel desiderio di autostima forse il sogno di essere una persona di valore al di là del reddito. Il tutto narrato dalla voce fuori campo della figlia saputella di Maxandra, che si alza all’alba per scrivere il suo romanzo e, con l’isterico maggiordomo, si pone come perfetto contraltare nel duetto dei due protagonisti. E così il melodramma si trasforma in musical e si sposta a Londra per poter infrangere schemi e pregiudizi ancora più radicati, farsi beffa delle regole dentro e fuori la finzione e giocare con il cinema come dispositivo in grado di sperimentazioni linguistiche inesauribili. Soderbergh stupisce sempre per la sua volontà di trasformare in testi di intrattenimento ogni operazione di ricerca, analisi e rielaborazione formale di grande raffinatezza. Qui il punto non è più soltanto il sentimento di rivalsa, ma una necessità creativa libera dagli stereotipi e dai cliché. Si tratta di ribaltare il punto di vista e sdoppiarlo in una visione più che mai ribelle e femminista (dagli streep club ad un teatro della tradizione londinese), di togliere la cravatta al film proprio come la scena in cui il maggiordomo la toglie a Mike, perché ci sono travestimenti veri e travestimenti finti, stratagemmi che esaltano la verità degli attimi e stratagemmi che mortificano la libertà della creazione e dell’invenzione.

 

 

Magic Mike – La Last Dance è una commedia romantica come lo era Sabrina di Billy Wilder (o come lo erano i film di Garry Marshall), con l’ironia, la leggerezza, il senso di responsabilità e l’impegno di un cinema che si prendeva sul serio e che, nella sua rigorosa forma di creazione collettiva, superava il concetto di autorialità, come, titolo dopo titolo, sembra voler fare Steven Soderbergh, che cambia, si trasforma e si adatta alle esigenze di ogni progetto.