Austria, 1939. Mentre nel mondo circostante iniziano a tuonare i cannoni della Seconda Guerra Mondiale, la vita continua a scorrere placida a Sankt Radegund, un villaggio immerso in una valle tra le montagne al confine con la Germania. Lì Franz Jägerstätter e sua moglie Franziska si amano e procreano, fino a quando il conflitto bellico richiama gli uomini alle armi. Ma Franz rifiuta di andare a combattere nelle file dell’esercito nazista, intimamente contrario al richiesto patto di fedeltà al Führer e inflessibile nella propria coerenza. La storia di Jägerstätter, un reale obiettore di coscienza cattolico beatificato nel 2007 da Papa Benedetto XVI, è quella al centro del nuovo film di Terrence Malick, A Hidden Life (il titolo è un omaggio a Middlemarch di George Eliot, citato a chiusura del film), presentato come il ritorno dell’autore texano a un cinema più narrativo dopo le escursioni rapsodiche di To the Wonder, Knight of Cups e Song to Song. In effetti, nella tendenza dell’ultimo Malick, si era persa una linearità di racconto – il che non vuol dire che in quei film non ci fosse racconto, ma solo che le storia e le storie si frammentavano in una sorta di polifonia impressionista – che qui è giustificata dalla concretezza dei fatti storici, dal concreto percorso di vita del suo protagonista. Malick però non abdica dalla sua idea di cinema, anzi cerca di piegarla alle contingenti necessità narrative. La parte introduttiva del film è un trionfo di grandangoli e di riprese che sfidano la forza di gravità: la messa in scena di una storia fuori dalla Storia. La vita di Franz e di sua moglie, e del villaggio che abitano, è una pastorale celeste, raccontata con un gusto quasi musicale: i due, belli e felici, trebbiano il grano e si sfiorano gioiosamente, faticano e lavorano affermando la pienezza di una vita vissuta in perfetta fusione panica con la natura.
Ai detrattori di Malick certamente spiacerà il tono elegiaco, il pensiero mistico di una compresenza atemporale tra umano e divino, tra quotidiano e infinito. Ma questa è la sua scommessa: il trasportare un’idea alta (e altra) di morale e di cinema nelle miserie di un’esistenza difficile ma per questo realizzata e quindi unica, cristallina, esemplare. La disubbidienza alle ragioni del tempo – che nella realtà in Jägerstätter riguardavano il rifiuto generalizzato di un mondo secolare prima ancora che del nazismo – sono però descritte attraverso un’afasia stupefatta e mistica del protagonista che si predispone al martirio con tono svagato, nel nome fantasmatico di una ragione superiore. Malick plasma la Storia per inquadrare il senso del sacrificio, per denudare l’ambiguo rapporto tra libera scelta individuale e massificato conformismo, per lambire il senso della Grazia senza smascherarne le contraddizioni. A Hidden Life è un film-preghiera, costruito come un romanzo epistolare (più che attraverso i dialoghi si procede attraverso la declamazione fuori campo delle lettere tra Franz e sua moglie) che fluttua su uomini e cose, accompagnato da una scelta musicale (tra la religiosità canonica di Bach e il minimalismo aereo di Gorecki e Pärt) che ha un sapore esistenziale vagamente prevedibile. Il dubbio che rimane è la reale possibilità di adesione dello stile frammentario e ormai consolidato di Malick a una materia così bruciante e concreta. Alcune scelte lasciano perplessi ( su tutte l’irrisolto impasto linguistico tra inglese e tedesco che relega la lingua germanica all’espressione degli stolti e degli immorali), alcune immagini di bellezza fuori dal tempo lasciano sbalorditi. A Hidden Life resta così in un limbo, preoccupato di mostrare il valore e la forza di una fremente convinzione personale in tempi cupissimi ma allo stesso tempo incapace di mostrare un reale scarto, di entrare nella mente del protagonista (a tratti sin troppo ingessato nella propria fede) senza sfiorare didascalismi e ovvie prese di posizione (la cattiveria dei nazisti, la propensione massificata al male, la cristologica pulsione al sacrificio come esempio e monito). Malick finisce, tra deformati atti d’amore e estatici paesaggi, per rimanere a un’eccessiva distanza dal cuore dei propri personaggi, vettori matematici di un discorso (e di un cinema) che – nella propria ostentata spiritualità – rischia di essere pure teoria.