Il paradiso probabilmente, la scena immobile di Elia Suleiman su Chili

La scena immobile, ferma nella sua assurdità, sospesa sull’ironia impassibile di cui si ammanta la condizione umana contemporanea: Elia Suleiman torna a guardarci con la sua faccia da Buster Keaton un po’ invecchiata. Ma questa volta si muove fuori confine, in trasferta (fuga?) dalla sua Palestina, ma non dalla condizione umana, ovvero dalla condizione palestinese. In quel mondo occidentale che per tanti deve essere il paradiso, lui si ritrova spettatore della stessa scena, il solito piccolo inferno quotidiano, fatto di check point, pattuglie, sicurezze imposte, paure elargite a piene mani, perimetri da misurare col metro delle polizie… Il paradiso probabilmente esercita il suo potere comico con la solita discrezione alla Tati di Elia Suleiman, che si mette in scena come corpo impassibile alle prese con la passibilità del mondo. Condannato a subire l’oltraggio delle piccole assurdità disperse nella vita quotidiana. Ci sono voluti dieci anni perché Suleiman potesse tornare a parlarci con questo suo lungometraggio ( Il tempo che rimane era del 2009) e Il paradiso probabilmente è esattamente il film che ti aspetteresti oggi da uno come lui, che attacca con l’ironia la disposizione del mondo a subire passivamente i perimetri imposti alla libertà. E lo fa costruendo un cinema che traccia in ogni iquadratura lo spazio lineare per lasciarlo evaporare nella libertà della poesie. Ogni scena è un elemento organico in cui le figure e gli sfondi oppongono resistenza alla volatilità della libertà di cui siamo fatti. E questo accade sotto lo sguardo imperturbabile di Suleiman, che è figura in scena pronta a ribaltare l’apparente ordine costituito in un poetico disordine dell’immaginazione: con lo sguardo che rivela (l’assurdità) e libera (il pensiero).

 

Il mondo che ES, come viene chiamato nella sinossi ufficiale, incontra in questa sua trasferta/fuga dalla Palestina è esattamente quello che conosciamo, fatto di controli continui, limitazioni delle libertà, percorsi obbligati: a Parigi come a New York, dove si reca in cerca di fondi per il suo nuovo film, è tutto un pullulare di pattuglie di polizia che danzano su pattini a rotelle o monoruota elettrici, prendono misure, piazzano check point. Pattuglie di cittadini armati percorrono le strade, vecchie signore con le borse della spesa vengono guardate a vista da agenti armati, nel metro ti trovi per compagno di viaggio loschi figuri con la faccia da fascisti… Intanto, ogni volta che torna a casa, ES trova il vicino che gli ha occupato il giardino colonizzando il suo limone, e un passero duetta con lui mentre scrive al computer. Elia Suleiman costruisce insomma la sua scena reale e astratta lasciando che la realtà quotidiana si racconti nella sua assurdita di fronte alla sua figura paziente e cosciente. La poesia si esplica come funzione politica e inevitabilmente il suo è un cinema che si impone nel segno della libertà. A Cannes la proiezione ufficiale è stata un trionfo di applausi a scena aperta…