C’è l’attore e c’è la sua controfigura, in un gioco di approssimazione tra la realtà e la sua finzione incarnato nello sdoppiamento del più classico dei buddy movie: Rick Dalton e Cliff Booth sono per Quentin Tarantino il doppio corpo nel quale si riflette la favola di Once Upon a Time in… Hollywood (Concorso). Una star di telefilm, Rick Daldon, che vede il suo astro scolorirsi, e Cliff Booth, lo stunt che lo ha doppiato sui set dei serial western e polizieschi di cui è stato protagonista. Siamo nel 1969, la New Hollywood sta per irrompere sulla scena del cinema, spingendo quella che c’era una volta sull’ennesimo Sunset Boulevard di Beverly Hills. In realtà, l’indirizzo preciso è un altro: Cielo Drive. E’ qui che Rick Dalton ha la sua villa: giusto accanto al civico 10050, dove risiedono il giovane Roman Polaski e Sharon Tate. Le coordinate di riferimento sono queste, Tarantino le pone sul tavolo come fossero il piano di un’azione coordinata tra finzione e realtà: Charles Manson e la sua setta sono lì, inscritti nella tragedia della Storia un po’ come lo erano Hitler e i nazisti in Iglourious Basterds, figure reali in campo fittizio.
Il punto focale del film è mobile, lavora sulla separazione del buddy dal buddy, ovvero del corpo reale dal corpo fittizio: bisognerà attendere la fine per vederli in azione riunificati, proprio quando in realtà le loro tracce esistenziali sembrano destinate a separarsi, ognuno per la sua strada… Per il resto il film ce li mostra come doppia faccia di uno stesso corpo che agisce fuori sincrono, tra la finta realtà dei set e la realtà finta di Hollywood: Rick Dalton recita, Cliss Booth attraversa Beverly Hills fendendo la finzione… Il primo sta sul set di un western crepuscolare in una lunga, bella scena, che è il classico film nel film tarantiniano; poi accetta la proposta di un produttore vecchia maniera (Al Pacino impomatato) e si spinge in Europa, tra Italia e Almeria, davanti alla macchina da presa di western e polizieschi diretti da Sergio Corbucci e Antonio Margheriti… Tornerà rinfrancato del successo a latere, con sotto il braccio gli immancabili manifesti fake tarantiniani, coi titoli di classici di Corbucci adattati all’universo che ha creato. Cliff Booth invece attraversa la realtà di Hollywood, percorrendone le strade a bordo della sua auto, flirtando con la ragazzina hippie che incrocia al solito angolo, infine seguendola sino al set in abbandono dove si è installato un suo vecchio amico e e dove ora vive la ragazza assieme alla strana banda di hippie, prevalentemente donne, guidate da un tal Charles Manson…Once Upon a Time in… Hollywood è insomma un film sullo spostamento, sullo spiazzamento tra la verità e la sua interpretazione – cosa, del resto, non nuova nel cinema tarantiniano… L’iconografia del film si basa sulla coppia DiCaprio/Pitt, ma Tarantino la infrange, o piuttosto la scompone nella duplicazione tra la realtà e la finzione di cui sono portatori. La linea narrativa tipicamente tarantiniana ad avvitamento governa la successione delle porzioni che compongono l’insieme del film, passo dopo passo verso il gran finale in cui si celebra l’immancabile rito tarantiniano dell’affabulazione riparatoria, della posa in opera di un universo finzionale puro e semplice, in cui la realtà trova una sua dimensione organica, giusta, coordinata. Seguendo quell’istinto di armonia che è offerto dal terzo corpo messo in gioco da Tarantino nel suo film, quello di Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie. La abbiamo seguita come fosse un angelo per le strade di Hollywood, affacciarsi al botteghino di un cinema in cui proiettano The Wrecking Crew, chiedere di entrare perché lei è la protagonista del film e sedersi in sala, i piedi nudi immancabilmente in vista, poggiati sulla fila davanti. La triangolazione perfetta dell’immaginario tarantino, il corpo finzionale, il corpo macho e il corpo dolce…