Schermo nero. Una voce stentorea consiglia al pubblico un’immobilità sospesa, intima anche di trattenersi dal respirare. Leos Carax, in scena, è seduto a una console di registrazione in uno studio in cui echeggiano le note di So May We Start? prima accennate dai fratelli Ron e Russell Mael – gli Sparks, gruppo seminale nato negli anni Settanta, autori della colonna sonora e co-sceneggiatori – e presto cantate a squarciagola da tutti i membri del cast, immersi nelle strade di Los Angeles per portarci nel mondo di Annette. A otto anni da Holy Motors, Carax ci riconduce così, con i suoi soliti fascinosi eccessi, in un mondo barocco e sentimentale, bigger than life, scoordinato ed enfatico, ambiguo e ambivalente. Marion Cotillard è Ann Defrasnoux, una soprano d’opera destinata continuamente a morire in scena prima di ricevere l’ovazione di rito; Adam Driver è Henry McHenry, uno stand-up comedian poco comico e molto introspettivo, che ragiona su sé e sul pubblico salendo sul palcoscenico in accappatoio e facendosi chiamare “il gorilla di Dio”. Due divismi contrapposti, uno centrifugo e uno centripeto, il cui incontro genera una passione che presto finisce fuori controllo. Frutto del loro amore è Annette, una bambina – rappresentata letteralmente come una marionetta – in cui è istillato un dono, quello del canto celestiale, e a cui è imposto un destino di probabile infelicità. Il rock-mélo di Carax, pieno di giravolte e scarti, di discese ardite e di risalite, mette in scena la dannazione di un amore attraverso un continuo rovesciamento di fronti e prospettive.
I due amanti, grondanti senso di morte come i protagonisti di Gli amanti del Pont-Neuf, si seducono e si regalano godimento come in attesa di una tragedia scatenante, di un avvenimento inevitabile che tutto bruci e tutto distrugga. Ann morde mele rossissime come una Biancaneve contemporanea, gettando sguardi languidi a uno specchio che sembra non risponderle mai. Henry fuma e mastica banane, scindendosi tra un egotismo superomistico e la natura ferina della scimmia di scena. La loro storia è destinata al dramma, il loro frutto d’amore – la lignea Annette – è soffocato dalla somma delle sofferenze genitoriali. Carax dispensa virtuosismi e ridondanze in questo melodramma canterino, aggiunge e toglie temi e suggestioni sfidando leggi narrative e senso del ridicolo, affaccia problematiche contemporanee – la mascolinità tossica di Henry, cantata da un coro di donne e poi lasciata affondare nello stagno di un racconto che procede per accumulo. L’ironia, il gioco puro di messa in scena promesso nella scena iniziale si diluisce pian piano in una sommatoria di suggestioni, spesso solo accennate. Perché Carax, in fondo, specchiandosi in questi due protagonisti eccessivi e incompiuti, adotta un gioco psicologico autocompiaciuto, assume su di sé, onnipotente deus ex machina, i rischi di un barocchismo sempre rivendicato ma non altrettanto compiutamente risolto. I rimandi fiabeschi insistiti in maniera parossistica – che questa è una fiaba nera lo si capisce chiaramente da subito – si rincorrono senza trovare una soluzione, un equilibrio, una rotondità di senso. Carax rischia, e rischia grosso, accettando i pericoli di una sovraesposizione – tematica, recitativa, stilistica – sempre ostentata, sempre eccessiva, sempre volutamente enfatica. Il risultato però, nella sua magnifica diseguaglianza, nella sua confusione creativa, nella sua generosità autoreferenziale, rischia di sgonfiarsi per eccesso di aria e di lasciarci inerti come il legno, elemento che rappresenta Annette ma che, ahimè, non è la materia di cui sono fatti i sogni.