Esplorando la solitudine: Amore a Mumbai – All We Imagine As Light di Payal Kapadia

Prabha è capo infermiera in un ospedale di Mumbai; protetta dal ricordo lontano del villaggio dove è cresciuta e dal pensiero di un marito fuggito subito dopo il matrimonio in Germania per cercare un lavoro impossibile in patria, che da tempo non dà notizie di sé; Anu lavora con lei e con lei condivide un appartamento spartano, più giovane e ancora ancorata alla speranza di un futuro migliore, innamorata e sola; Parvaty fa la cuoca nello stesso ospedale, è vedova e su questa solitudine-vedovanza costruisce un’esistenza autonoma, certa che la propria autonomia sia un segnale di vita. Queste tre donne attraversano Mumbai quotidianamente, ognuna persa dietro alle proprie speranze e afflitta dalle proprie difficoltà. Prabha si interroga ogni giorno sulla difficoltà quotidiana di vivere una vita da moglie senza avere un marito; Anu riflette la propria giovinezza nel sogno di una vita migliore, si concede ai baci del fidanzato musulmano sapendo che le barriere religiose e culturali non le permetteranno mai di costruire una personale felicità; Parvaty esplora la solitudine infondendo fiducia nella sua capacità di sopravvivenza, consapevole del ruolo scelto e diversamente imposto dalla società in cui vive. Tutte e tre si sentono sole; tutte e tre scopriranno, nelle interrelazioni che affrontano, la possibilità di un nuovo grado di consapevolezza adatto al loro scontro – un continuo corpo a corpo – con la vita quotidiana.
 

 
All We Imagine As Light, opera prima dell’indiana Payal Kapadia, al suo esordio nella finzione, dopo aver vinto “L’oeuil d’or” per il migliore documentario a Cannes 2021 con A Night of Knowing Nothing, costruisce un racconto tripartito di autoaffermazione, raccontando la storia intima di tre donne – di tre condizioni sociali, di tre approcci all’esistenza, di tre differenti modalità di fiducia verso la vita – con mezzi asciutti e con la convinzione che la forza narrativa sia in grado di plasmare la forma affidandola alla sostanza. All We Imagine As Light (vincitore del Grand Prix a Cannes77) incarna la storia di tre donne, ognuna alle prese con una personale emarginazione emotiva, che trovano insieme la forza di reagire e di formarsi, di fermarsi, di conoscersi. L’ordinaria amministrazione – fatta di giornate in corsie ospedaliere, di pasti consumati da sole e in fretta, di interminabili viaggi su mezzi pubblici sempre affollati da volti inconoscibili e asettici – informa e plasma le loro vite, impedisce loro domande e potenzialità, dirige verso una palpabile insoddisfazione il percorso delle loro vite. Kapadia ama le sue protagoniste, riesce a tratteggiarle con pennellate semplici ma convincenti, dona loro carattere e peculiarità. In un universo imperscrutabile come quello della società indiana, Prabha, Anu e Parvati sono monadi in cerca di un quadro, variabili di una società refrattaria ad accettare l’indipendenza delle donne sole. Tutte loro, in fondo, sono alla semplice ricerca della felicità, di un posto del mondo che non le obblighi a sentirsi perse, autoriferite, abbandonate da una società fino in fondo maschile.
 

 
Ma degli uomini, in All We Imagine As Light, sembra non restare traccia. Il ricordo di Prabha di un marito lontano, la perplessità di Anu, chiusa in un rapporto impossibile, la fragile fermezza di Parvaty, memore di un ricordo che non fa altro che definirla controvoglia, sono le tre età di una riconquista possibile, di un’auto-definizione che si rende necessaria. All We Imagine As Light è una variabile indiana del cinema d’autore europeo che però, a tratti, sembra mancare d’aria. Kapadia fornisce un ritratto credibile ed empatico dei suoi personaggi, dedica loro attenzione e primi piani, costruisce un film teso alla loro realizzazione. Resta però la sensazione di un film costruito principalmente per un pubblico occidentale, in cui la parabola dei personaggi appare plasmata su una sensibilità altra, straniera, non del tutto pronta all’urgenza delle sue protagoniste. E se alla fine a Prabha, Anu e Parvaty riusciamo a voler bene, l’impatto emotivo resta affidato a un approccio intellettuale, costruito, aprioristico. All We Imagine As Light è l’esempio di un cinema che nasconde un approccio asettico di base dietro il sipario di un’emotività compressa. Una possibilità diversa per il cinema indiano che però suona a tratti inerte, incapace di imporre il proprio punto di vista, il proprio sguardo. Buono per un premio a Cannes, certo, ma ancora lontano da una sua piena realizzazione artistica.