Cannes77 – Gli occhi di Anya Taylor-Joy e le strade del mondo: Furiosa – A Mad Max Saga, di George Miller

Si torna sulla strada, tra la polvere del deserto postatomico in cui si iscrive da sempre la saga di Mad Max: ma stavolta lo sguardo di George Miller è posato un po’ prima, precede i fatti di Fury Road e racconta la vita e l’ascesa di quella che era l’Imperatrice Furiosa di Charlize Theron. Qui nel ruolo c’è Anya Taylor-Joy, splendida con i suoi occhi grandissimi e utili a descrivere tutto l’odio e la vulnerabilità del personaggio. Il suo racconto parte dall’infanzia, quando viene strappata alla sua oasi in mezzo alla sabbia e condotta nelle Terre Perdute da Dementus – un imprevedibile Chris Hemsworth, che è il rovesciamento del “suo” Thor, finalmente liberato anche nella possibilità di usare il natio accento australiano. Accolta poi nelle fila di Immortan Joe, Furiosa cercherà la sua occasione per tornare a casa e soprattutto troverà il modo di attuare la sua vendetta. Gli occhi di Anya Taylor-Joy, dunque, su cui Miller insiste, li ritaglia nelle varie maschere, parrucche e camuffamenti con cui Furiosa si copre il viso. Sono loro lo specchio delle sue emozioni, ma anche le ideali lenti attraverso cui l’autore-demiurgo inquadra le strade di questo mondo (si pensi a quanto spesso vediamo l’azione mediante mirini o binocoli). E non potrebbe essere altrimenti, poiché fin dalle origini la saga di Mad Max ha rappresentato soprattutto una questione di come vedere, o meglio rivedere, il mondo. Non solo perché ha creato un’estetica da cui tantissimi hanno attinto, anche in ambiti non strettamente legati al cinema (pensiamo al manga di Ken il guerriero), ma anche perché i primi Interceptor (come erano noti in Italia) ridefinirono l’estetica degli inseguimenti, il modus con cui inquadrare i veicoli e gli assalti agli stessi sulle infinite lingue d’asfalto nell’Outback australiano.

 

 

Miller si incollava alle carrozzerie, le esaltava con i grandangoli, sceglieva punti di vista impossibili per rendere quelle lamiere materia viva, ossequiando un feticismo tipico della cultura aussie e che poi si rimpallava in tanto cinema di quelle latitudini, dalle Macchine che distrussero Parigi di Peter Weir (precedente) al fuoristrada-mostro di Fair Game di Mario Andreacchio (successivo), con la coraggiosa Cassandra Delaney legata al parabrezza come atipica polena umana – proprio come accadrà poi a Max in Fury Road. Anche per questo, Furiosa non è, come ci si potrebbe legittimamente aspettare, un film di carne e sangue: le lacrime di dolore della protagonista sono materia scientifica, descritta nei suoi componenti organici dai carcerieri, la schiena di sua madre sanguina senza che la donna ne abbia a preoccuparsi, un po’ come accadrà a lei stessa quando perderà il braccio. Perché questo è pur sempre un mondo di sabbia e lamiere, sono i veicoli a essere l’estensione delle emozioni umane, come la megacisterna che esalta il potere di Immortan Joe, un Frankenstein che unisce camion, rimorchio, benne e bracci escavatori, palle chiodate incatenate e armi di vario genere. Un magnifico mostro meccanico, poi fattualmente reso vivo dalle azioni di chi lo governa. Sarà non a caso proprio il posto alla guida di quel veicolo che Furiosa dovrà conquistare dopo essere partita da una “gavetta” che inizia sotto il rimorchio, in una sorta di ideale scalata sociale – seguita da un mentore, Pretorian Jack, che nella carismatica interpretazione fornita da Tom Burke crea un giusto contraltare all’assente Max. Giusto dunque che pure lei stessa diventi poi un essere ibrido, iconico come le macchine delle Terre Perdute, con il nero petrolio che le copre il viso e il braccio meccanico a metà strada fra Terminator e l’Ash de L’armata delle tenebre, ovvero fra una nuova prospettiva cyberpunk e il gusto ludico di chi ama giocare con il cinema.

 

 

Così fa Miller, cui la CGI ha messo in mano nuovi strumenti, utili a descrivere traiettorie più libere della macchina da presa, fra la terra e il cielo, che rendono il deserto un enorme tableau vivant. Il film, da questo versante, è meno avanguardista di Fury Road che diventava pura astrazione visiva, perché ha una parabola narrativa più definita da seguire, ma è comunque capace di mantenere le coordinate estetiche e il loro ripensamento iniziato con il film precedente, allargando il campo di questo mondo tutto personale e delle sue figure. Proprio questo sguardo in equilibrio fra gli estremi rende il film più controllato, ma al contempo maggiormente consapevole circa il precipitato teorico dell’operazione e le sue possibili risonanze d’attualità. Perché in fondo questa storia di identità da trovare respira benissimo gli umori del nostro tempo e la consapevolezza che la guerra è fatta sì per il carburante e i proiettili (come già si prefigurava nella trilogia iniziale), ma anche e soprattutto per colpa dei folli che si innalzano al potere, non ammettendo i propri errori ma scaricando sugli altri le responsabilità, in un eterno reiterarsi della (stessa) storia: un po’ come questo inseguimento filmico che si ripete dal 1979 e che nel suo percorso abbraccia tanto altro cinema (inevitabilmente si può pensare anche a una variazione sui Dune di Denis Villeneuve, certamente). Così, il rovesciamento prospettico dato dalla soluzione finale con cui Furiosa decide la sorte del nemico e il suo ruolo in questo mondo è tanto doloroso quanto poetico e necessario. Come questo prequel che si incastra perfettamente nella continuity, ma ha un sapore tutto suo. Un’opera che risuona nello stesso modo in cui il rombo perenne dei motori contrappunta e completa il peculiare tappeto sonoro del film, lungo una narrazione-fiume senza cedimenti, nel percorso compiuto dall’apertura del Festival di Cannes 77 fino alle nostre sale.