Cannibali e anfetamine. The Bad Batch di Ana Lily Amirpour

243193Difettoso è il lotto, quello in cui vengono sbattuti i reietti dell’America di un domani prossimo venturo (Donald Trump all’orizzonte?) in The Bad Batch, l’opera seconda dell’iraniamericana Ana Lily Amirpour: una no man’sland in territorio texano, che deve ovviamente molto alla New York  carpenteriana, in cui la regista di A Girl Walks Home Alone at Night reinventa uno scenario distopico in stile Mad Max, senza tuttavia riuscire a sganciarsi dalle spire del già visto. A leggere le note di produzione, si direbbe che la giovane e stilosa regista abbia in realtà voluto ritrovare un tono da spaghetti western. Quello che però è certo, è che siamo piuttosto distanti dalla capacità mostrata nel suo apprezzatissimo film d’esordio di rielaborare l’immaginario gotico vampiresco in chiave post metropolitana. Lo schianto con la luminosità del deserto appiattisce tutte le ombre che animavano il background di A Girl Walks Home Alone at Night in uno scenario post apocalittico da manuale, sostituendo la vampira velata di nero con Samantha, una bionda eroina che sembra uscita dall’ultimo spring break dell’umanità, interpretata dalla Suki Waterhouse di Insurgent e Pride and Prejudice and Zombies.

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Sulla linea dell’orizzonte si contrappongono le comunità di cannibali, che mettono in dispensa i prigionieri catturati nel deserto, e l’isola del consumismo anfetaminizzato chiamata Confort e governata da un guru tamarro di nome “The Dream” (Keanu Reeves). La Amirpour insiste su questa dicotomia negativa con facile metafora sociale, lasciando la sua protagonista, monca di un braccio e di una gamba, nel bel mezzo del dissidio tra due differenti modi di abbrutimento dell’umanità, quello dell’uomo mangia uomo e quello in cui l’uomo si fa consumare dalla felicità artificiale. In realtà una terza via c’è – c’è sempre! – ed è incarnata nel macho conaniano con spirito d’artista e origini cubane che la Amirpour visualizza nei muscoli di Jason Momoa da Game of Thrones… E anche a voler mettere da parte la banalità della parabola e la discutibilità dell’alternativa, resta l’impianto estetico nullo di un film che rimastica banalmente, e anche con una certa supponenza, stralci di immaginario già ben consunti, cannibalizzando un cinema che avrebbe bisogno di ambizioni differenti.