Chiamami col tuo nome: Guadagnino e il riflesso dell’amore

L’idea del rispecchiamento, implicita nel farsi chiamare col nome dell’altro, è la matrice che forma il cinema di Luca Guadagnino, la sua cifra poetica e la formulazione stilistica, lo splendore del suo fare cinema e il limite del suo filmare il cinema. Rispecchiamento, riflesso, Narciso, innamoramento: vedersi innamorati è come la nominazione dell’amore (Io sono l’amore), come dare luce alla luce in un farfugliamento prismatico di sentimenti che diffonde tutt’attorno passione e innocenza. È evidente che Chiamami col tuo nome giunga in maniera così diretta alla sensibilità estetica ed emotiva del pubblico anche più smaliziato: mai come in questo film Luca Guadagnino ha lavorato sulla materia stessa del filmare, sull’innocenza che ferma il suo attimo un ventiquattresimo di secondo prima di morire, ad un passo dall’orgasmo (piccola morte…) che poi si consegna al declivio del vivere. Il coming of age in dissolvenza incrociata con l’age of innocence produce quello spiazzamento sentimentale che ti lascia nudo dinnanzi al tuo essere spettatore, inconfutabilmente immobile di fronte a tutto quel movimento di vita, allo spostamento d’aria che ogni inquadratura contempla. Il gioco è esattamente quello che intrappola il giovane Elio all’arrivo di Oliver: folata di desiderio dissimulato nello sguardo rivolto altrove, a scompigliare la sua introversione creativa, il suo rapporto solipsistico con la musica che suona e trascrive, la sua attrazione ancora insicura per l’amica Marzia.

La scena occupata dalla maturità in leggerezza dei suoi genitori, intellettuali ebrei invaghiti della classica perfezione diffusa dall’archeologia dell’entroterra padano, si lascia fendere dall’arrivo del dottorando americano, ospite del professore per una residenza estiva: Oliver occupa la stanza e il letto di Elio e ne attrae implicitamente le attenzioni, spingendosi nel riflesso di un innamoramento reciproco che prenderà lentamente ma decisamente corpo. Ma qui non è occasione di desiderio, esattamente come il solco non è scavato sulla questione identitaria della sessualità: Guadagnino lavora sul libro di André Aciman tenendo fede all’ideale di una bellezza che occupa la scena e i corpi, lasciando transitare la sensualità nella levigatezza aulica di uno scenario anni ’80, ancora arcaico rispetto al perenne question time sulla sessualità cui siamo sottoposti in questo millennio. Non è il desiderio carnale a vibrare nel film, ma l’attrazione per la purezza del Bello. Non la materialità di un argomentare gender, ma l’idealità di un cercare nell’altro il riflesso della bellezza che si vede in se stessi. James Ivory sceneggia applicandosi sul testo di Aciman in maniera diversa da quanto aveva fatto trent’anni fa, ai tempi di Maurice, sul libro postumo di Forster, dove il baricentro si collocava tra identità sessuale e scala sociale. In Chiamami col tuo nome Guadagnino lavora piuttosto sull’innamoramento come riflesso di se stessi nell’altro e dunque sulla possibilità del cinema di aderire a una versione idealizzata del bello, a un sentimento aulico che performa la realtà. Il film s’invola nella sua specularità, ad un tempo immagine e riflesso di se stesso, in una funzione perpetuamente diffusiva dei due protagonisti, che si inseguono nello spazio: la seduzione reciproca è tutta giocata sul movimento, sull’avvicendarsi reciproco negli spazi altrui, sull’attrazione dell’altro nei luoghi che si scoprono e che si posseggono. Tutto perfettamente coerente con il cinema di Guadagnino, da sempre ebbro di movimento, lucido nella spazialità che offre ai personaggi come occasione per liberarsi, esprimersi, trovarsi e magari anche perdersi. Il suo narcisismo manifesto è la versione disincarnata del neoclassicismo di certi giovani autori sapientemente persi nel riflesso del loro stesso cinema (pensate a Dolan). Ed è il narcisismo che Guadagnino offre all’incontro tra Elio e Oliver, formulazione di quella dissimulazione riflessiva tra identità e differenza, espressa magnificamente nella sequenza in cui Elio seduce davvero per la prima volta Oliver modificando l’esecuzione di un brano di Bach, invece di corrispondere alla sua richiesta di eseguirla di nuovo nella stessa maniera in cui l’ha eseguita poco prima…Il film resta nel suo insieme con l’evidenza di un fermo immagine trattenuto sul declinare dell’innocenza nella consapevolezza di sé, la perdita di un desiderio che è tale perché manifesta ciò che è occulto, dunque inatteso. Non c’è dramma, non c’è confusione, non c’è disfunzione: Oliver non è la statua di sale di Elio, il suo andare oltre l’attimo dell’innamoramento è l’oggetto stesso che rende drammaticamente interessante agli occhi di Guadagnino la storia di Elio, perché lo lascia immobile nel suo mutamento.