Da Locarno, l’insidiosa scoperta di sé di Tikkun

 

7Un bianco e nero che vive del contrasto tra la chiave metafisica, quella grottesca e quella segretamente ironica del film. Un persistente segno del silenzio che occupa l’esistenza di  personaggi che vivono in perenne ascolto di Dio. Il dissidio tra la cifra astratta di una rappresentazione che sta fuori dal tempo e quella onirica che intercorre come un contrappunto incombente. Tikkun è un’opera seconda (The Wanderer, l’esordio di Avishai Sivan, era alla Quinzaine 2010) che incide la sua stessa sostanza con una progettualità molto controllata, senza per questo rinunciare a punti di fuga inattesi. Lo prendi per un film che staziona nel rigore asfissiante di una comunità ebrea ortodossa della Gerusalemme contemporanea, ma poi si stupisce assieme al suo protagonista nel ritrovarsi bagnato dal mondo: Haim-Aaron studia le scritture come nessun altro. Alla sua giovane età è lo studente prodigio della Yeshiva, stretto in un rigore fatto di mortificazione e ossessione, almeno sino a quando la vita non si impone a lui con il suo portato di desiderio: la bellezza della carne di un labbro femminile, l’eccitazione inattesa, il proprio corpo che pulsa…

 

 

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Ma se credete che Sival utilizzi queste pulsioni del suo protagonista per slargare la verginità asettica del mondo che compone attorno a lui, vi sbagliate: Tikkun resta ancorato all’anestesia della scena e questi elementi occorrono nell’impianto del film come incursioni oniriche (la sensualità delle visioni) o come accensioni grottesche, al limite dello slapstick (tutti gli incidenti fisici che marcano gli stadi di passaggio del protagonista hanno una meccanica che interpreta il ridicolo del tragico, o viceversa…). Fatto sta che il giovane Haim-Aaron muore e poi risorge: un incidente domestico lo lascia a terra privo di vita, i paramedici non riescono a salvarlo, ma il padre, che è un macellaio kosher, per una volta non toglie la vita ma la restituisce, con un massaggio cardiaco che ha la forza della disperazione capace di sfidare dio stesso. Ecco che dunque per Haim-Aaron il Tikkun che, ci spiega il regista, in ebraico sta per miglioramento, assume l’altro significato, più spirituale, di ritorno in vita per compiere il proprio destino. E allora il film diventa il terreno minato di un insidioso percorso di scoperta di sé, una sorta di horror senza orrore, disarticolato come un corpo che non risponde alla sua volontà. Questo improprio revenant, che tutti salutano come graziato da dio, non è più lui, non riesce più a essere quello di prima e cerca disperatamente di essere qualcun altro, nello stupore che è prima di tu3tto suo… Tutto lo porta verso la vita, trascorre le notti in turbamento fuori di casa, cerca contatto con nuove persone, mentre il padre, sconvolto dal suo cambiamento, ha incubi in cui sfoga il senso di colpa per aver contraddetto la volontà di dio, che si era preso la vita del figlio… Avishai Sivan sente il grottesco di un personaggio quasi kafkiano, schiacciato dal peso della sua esistenza, metamorfosi vivente che subisce il proprio cambiamento senza capirlo. La cifra stilistica dissonante, astratta, si spinge nel surreale sempre più grottesco, ma resta impassibile ed è questo ciò che maggiormente colpisce del film. La tragedia è alla fine, come una dissimulazione metafisica che riconnette la realtà e l’onirico: basti considerare l’intera scansione di eventi del finale, il bagno di nebbia, la notte astratta, la straordinaria visione courbetiana sull’origine du monde in versione natura morta, immediatamente contraddetta dal ridicolo che incombe ancora una volta sul destino del protagonista…