Dal calendario dell’horror: Thanksgiving, di Eli Roth

Fra le tante feste di cui si compone il calendario degli slasher movie – quello, per intenderci, generato dai vari Black Christmas, Halloween, Venerdì 13 e via citando – il Giorno del Ringraziamento sembrava finora essere rimasto fuori da ogni considerazione, nonostante il potenziale dato dalle sue origini puritane, che datano alle prime comunità di padri pellegrini in terra d’America. A scompaginare le carte ci ha pensato Eli Roth, che nel 2007 ha fatto della ricorrenza novembrina il fulcro di un finto trailer per il progetto Grindhouse degli amici Robert Rodriguez e Quentin Tarantino. In ossequio all’operazione nostalgia che guidava il tutto, il filmato immaginava una tipica situazione da tardo slasher anni Settanta, con una cittadina oggetto di un maniaco abile a colpire (e punire) gli adolescenti nelle situazioni più scabrose e violente possibili, sul sottofondo visivo costituito da una pellicola rovinata e dalle tinte slavate della fotografia. Da quel ricettacolo molti progetti hanno poi visto la luce, dal dittico di Machete dello stesso Rodriguez, a Hobo with a Shotgun di Jason Eisener, orientati più che altro a espandere il concept sintetizzato in pochi minuti. Roth invece, tenta un’operazione sulla carta più sofisticata, sfruttando la memoria del trailer per dare forma a un’opera che guardi alla contemporaneità, come se il “vecchio” Thanksgiving avesse dato forma a un moderno remake.

 

 

In questo senso va inquadrata la storia che, pur ripercorrendo a grandi linee i momenti topici del precedessore, immerge la narrazione in un contesto nuovo, che tiene conto dell’invadenza dei social media e, soprattutto, dell’imbastardimento della festa, legata ormai a doppio filo alle code fuori dai negozi per le vendite del Black Friday. Proprio durante una di queste occasioni si verifica infatti un’isteria di massa con annesso massacro da risposta a Zombi di George Romero. Il trauma scatenante la furia dell’assassino, insomma, non è più racchiuso in un evento privato solo a lui noto, ma trova il suo punto d’origine in un momento pubblico che scuote un intero paese, costretto così a doversi confrontare con il suo lascito, nonostante i tentativi della gente di nascondere la polvere sotto il tappeto per far tornare tutto alla normalità. La cifra politica del novello Thanksgiving, cerca così di dare forma a una riflessione tutto sommato “seria” sul nostro presente, in cui a essere messa sotto accusa è la perdita dei valori fondanti di una nazione, qui “punita” da un killer che indossa la maschera di John Carver, personaggio peraltro realmente esistito, religioso britannico del XVII secolo e poi governatore della comunità di Plymouth, che aveva raggiunto a bordo della Mayflower. Non a caso, il film si caratterizza per un tono generale alquanto cupo, dove tutti i rapporti fra i personaggi risultano orientati a un individualismo sfrenato e a un perenne clima di scontro reciproco.

 

 

In definitiva, risulta ben presto chiaro come Roth cerchi di applicare allo slasher dei primi anni Venti, quella stessa lucidità di sguardo che aveva caratterizzato Wes Craven nel dare forma a Scream alla fine dei Novanta. In tutto questo, però, l’autore non dimentica il punto d’origine, ovvero il finto trailer di Grindhouse, dove l’omaggio alla tradizione si accompagnava a una parodia della stessa. Se, insomma, c’erano le morti e il sangue, prevaleva su tutto un tono demistificatorio e volto a suscitare l’ilarità dello spettatore attraverso una ricerca insistita del grottesco. In questo modo, il nuovo Thanksgiving tenta un difficile doppio passo, per accreditarsi sia come vicenda “credibile”, che come visione parossistica, attraverso morti inaspettate e generose nel loro dispendio di violenza. L’equilibrio fra le parti si rivela però un boomerang per un racconto che in questo modo non sembra trovare il giusto compromesso fra i suoi estremi: troppo “serio” per essere spregiudicato come il filmato d’origine e troppo estemporaneo nei suoi eccessi malamente gestiti, restituisce la sensazione di uno spunto in definitiva spinto nel mezzo e così “normalizzato” rispetto ai suoi possibili picchi. L’impressione generale è dunque di assistere a uno slasher alla fin fine abbastanza tradizionale e ben lontano dalla lucidità che vorrebbe ostentare. Un film che, insomma, un po’ si perde, insieme a una vicenda piuttosto confusa nel suo continuo andirivieni di personaggi e situazioni.